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Meno competitività e prodotti più cari

Pubblicato il 27/09/2017 @ 08:45 in Giornali,Il Sole 24 Ore


L’Europa a Tallin discuterà se e in che modo introdurre una web tax. Negli Stati Uniti montano e si rafforzano critiche al sistema industriale da cui è nata la rivoluzione digitale, lo strapotere dei Big Tech di Silicon Valley. Che nesso c’è tra l’iniziativa europea e le critiche “americane”?

Tra queste, la prima riguarda la concorrenza, che sarebbe ridotta dal solitario gigantismo dei Big Tech, con effetti negativi anche su innovazione e investimenti e dunque anche sulla (modesta) crescita della produttività americana (Diane Coyle, Digital platforms force a rethink in the theory of competition, FT 18 Agosto 2017); tanto che qualcuno si è perfino chiesto se non sia il caso di ripetere lo storico break-up dell’AT&T. Un’altra è di tipo etico: se l’operare su mercati a due versanti – come fanno ad esempio le TV commerciali o le carte di credito – possa comportare lesioni dei diritti di privacy, o esproprio del valore venale dei dati personali. (Rana Foroohar, Big Tech makes fast gains at our expense, FT 21 Sett 2017). E infine di tipo finanziario: se, con le dimensioni raggiunte dagli utili parcheggiati in sospensione d’imposta (oltre $2 trillion), non sia improcrastinabile per governo e parlamento USA por mano a una riforma generale della fiscalità delle imprese.

L’Europa si appropria di questi temi, e li utilizza come giustificazioni “virtuose” alla sua proposta: mentre è evidente che una tassa sui servizi che i Big Tech vendono nei paesi europei con la privacy non ha nulla a che fare, e sugli assetti proprietari di aziende americane e il loro rapporto con il loro fisco non ha nulla da dire. A ben vedere non lo ha neppure con gli accordi fiscali che i Big hanno concluso con singoli paesi europei, come il famoso double irish, citato come esempio di evasione fiscale. Citato a sproposito, perché delle due l’una: o la Corte del Lussemburgo dirà che il governo irlandese ha torto e Apple dovrà pagare, e allora il problema dell’evasione sarà stato risolto, per il passato e per il futuro, con le attuali leggi e senza bisogno di web tax. Oppure dirà che ha torto la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager, nel qual caso sarà difficile sostenere l’introduzione di una tassa per compensare un’evasione che la Corte di Giustizia europea ha dichiarato inesistente.

Se la web tax neppure sfiora i problemi creati dal predominio dei Big Tech, resta da vedere se almeno produce vantaggi all’economia europea. A prescindere quindi da come fondarla in dottrina e esigerla in pratica, temi irti di difficoltà anche per gli specialisti, c’è un problema di fondo: il ribaltamento di questa tassa sui clienti ( e quindi sui consumatori). Con l’assenza di concorrenza che viene lamentata, e la difficoltà di paragonare le offerte, che ciò avvenga è più che probabile; e siccome neppure governi sovietici avrebbero i mezzi per impedirlo, è certo che, grande o piccolo, un aumento di prezzo ci sarà. Dunque la web tax renderebbe meno competitive le aziende dei paesi che la impongono. Che una simile proposta sia sostenuta da coloro che protestano contro l’ ”austerità”, risulta del tutto incomprensibile.

Quando poi nel documento della Commissione Europea si legge che la web tax è necessaria perché “la digitalizzazione dell’economia cancella la differenza tra beni e servizi”, ci si domanda se questa idea sia non la conseguenza ma tra le cause della situazione a cui si vorrebbe porre rimedio: cioè se l’incapacità di capire il funzionamento dell’economia digitale appartenga alle ragioni per cui non è nata da noi un’industria digitale paragonabile a quella USA. Scrivere quella frase infatti significa non cogliere la differenza tra i prodotti, che sono fatti di atomi, e i beni di informazione, che sono fatti di bit; mentre i primi impegnano risorse e sono deperibili, i secondi sono gratuiti, perché il costo di riproduzione è pressoché nullo, perfetti, perché ogni copia è identica all’originale, e istantanei, perché la rete li rende immediatamente disponibili. Quelli che la commissione chiama “servizi” sono forniti da piattaforme, ambienti caratterizzati da costo quasi nulli di accesso, riproduzione, distribuzione. E’ evidente che si trovi difficile catturarli e tassarli.

La web tax, non pone rimedio alle questioni vere, di concorrenza, di privacy, di prelievo fiscale sugli utili; riduce la competitività per le imprese europee e fa aumentare il costo dei prodotti per i consumatori; non indirizza gli operatori a governare il loro futuro digitale. Risparmiamoci il moralismo: non siamo portatori di una giustizia fiscale, cerchiamo solo di portare a casa un po’ di soldi da un’industria che da noi non ha trovato il terreno giusto per crescere. La web tax è semplicemente una tassa, sua ragion d’essere son solo gli introiti che sembra promettere.

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di Rana Foroohar – Formiche.net, 17 settembre 2017

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di Diane Coyle – Financial Times, 17 agosto 2017

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