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Meditazioni

Pubblicato il 26/01/2010 @ 19:02 in Libri,Miei scritti e prefazioni


Riflessioni sul vino e sul rapporto con il vino esposte da esponenti del mondo eonomico , imprenditoriale e dell’informazione che, oltre ad avere conseguito risultati di eccellenza nel proprio ambito professionale, avessero trovato nella passione per il vino una nuova e diversa dimensione.
Scritti di Pier Carlo Padoan, Vittorio Grilli.ecc. Franco Debenedetti, suscitati e raccolti da Nicola Rossi, per il Consorzio per la Tutela del vino doc Rosso Canosa.

La versione di Franco

Allora l’Eterno disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto davanti a me, in questa generazione.  Di ogni specie di animali puri prendine sette coppie, maschio e femmina; e degli animali impuri una coppia, maschio e femmina;  anche degli uccelli del cielo prendine sette coppie, maschio e femmina, per conservarne in vita il seme sulla faccia di tutta la terra; poiché fra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti, e sterminerò dalla faccia della terra tutti gli esseri viventi che ho fatto». Noè fece esattamente tutto ciò che l’Eterno gli aveva comandato. Noè aveva seicento anni quando venne sulla terra il diluvio delle acque.”
Così Noè si avviò ad entrare nell’arca, quando improvvisamente si parò dinanzi a lui, come spuntato dal nulla, un Cherubino dagli occhi fiammeggianti che, alzando la mano in modo perentorio gli intimò di fermarsi. Incurante della coda che vieppiù si allungava, rumoreggiando, di tutte le specie di animali, gli chiese di soffiare in un’ampolla che recava nell’altra mano. L’ampolla prese subito a colorarsi di un rosso denso e cupo. “La patente di navigazione per arche”, intimò con voce severa. “Gliela devo ritirare”.
Si deve saper che già a partire dal cinquecentesimo anno della sua vita, Noé aveva mostrato un crescente interesse al vino: quella che era, in sul trecentocinquantesimo anno, una moderata inclinazione, si era via via trasformata in una radicata abitudine, dovuta certo alla necessità di approfondire, con assaggi ripetuti e prolungati, gli aspetti qualitativi delle bevanda, al fine di impartire direttive per l’incipiente pratica della selezione delle piante, e per le tecniche di lavorazione dei mosti, anche al fine di riconoscere nelle une e nelle altre l’opera di Dio attraverso gli uomini Suoi figli, sottraendole alle superstizioni pagane degli adoratori di Moloch, che tutto facevano dipendere dalle fasi della luna e dalle congiunzioni astrali. Con gli anni, gli era diventato sempre più necessario aumentare le quantità per potere giudicare della qualità, sicché nel suo seicentesimo anno, quello dell’epoca in cui si svolge la nostra storia, ogni suo pasto era accompagnato da un cospicuo numero di calici di vini di diversa qualità. E già c’era qualcuno che, scuotendo la testa, prevedeva quello che sarebbe capitato verso il suo settecentesimo anno, per la precisione verso il settecento quarantesimo, in cui la libagione (reale? presunta?) di un vinello giovane e frizzante, considerata da sua moglie sconveniente, addirittura segno di ossessione senile, di una morbosità da curare, intaccò la sua autorità, e diede luogo a una disputa sull’eredità tra i figli, finita con spiacevoli conseguenze per uno di essi e dei suoi discendenti.

Il risultato dell’esame dell’ampolla era dunque presumibilmente corretto, o per meglio dire era giustificato in relazione alle regole emanate nell’ultimo secolo. Regole sulla cui opportunità e validità molto si era discusso tra Cherubini e Serafini, ma che alla fine erano state approvate, dato che nessuno aveva avuto il coraggio di opporsi, di rischiare di essere male interpretato e di perdere il posto.

A nulla valsero le proteste di Noé: insinuò che forse il Cherubino non sapeva con chi stava parlando, vantò i suoi rapporti nelle alte sfere, addusse ragioni di necessità e di urgenza. Nulla da fare, il Cherubino si tenne la patente: e senza patente non ci si imbarca e non si naviga.

Questa non è una storia falsa: è una storia impossibile. Infatti se fosse vera nel diluvio sarebbero affogati Noé, la sua altezzosa moglie, tutti e tre i suoi figli, non ci sarebbero state questioni ereditarie, e noi non saremmo qui contarcela. Sarebbero morti anche gli animali, per cui l’evoluzione avrebbe dovuto ricominciare dai pesci, o dalle amebe, e chi vi scrive sarebbe probabilmente un mammifero insettivoro del miocene, evidentemente incapace di farlo. Il presente, il fatto che io oggi vi scriva e voi mi leggiate implica, mette delle condizioni sui passati possibili. E’ la versione enologica di uno dei ragionamenti più affascinanti della cosmologia, il principio antropico. Lo accenno appena, certo che tutti vi scorgeranno il potenziale per rapinose meditazioni.

Nella sua forma debole, il principio antropico si basa sul fatto che le grandezze fisiche e cosmologiche, per il fatto stesso che ne parliamo, devono assumere, tra tutti quelli possibili, valori specifici che soddisfino il requisito che esistano luoghi dove possa svilupparsi la vita basata sul carbonio. Ad esempio, l’universo non può essere più giovane di un dato limite, e questo implica che non può essere più piccolo di un determinato valore.
Più intrigante è la sua forma forte: nella formulazione che ne dànno J. D. Barrow e F. J. Tipler, esso afferma che l’universo deve possedere quelle proprietà che permettono alla vita di svilupparsi in qualche stadio della sua storia. Se nei primissimi istanti di vita dell’universo non avesse luogo la cosiddetta violazione della simmetria CP2 non potrebbe formarsi la materia stessa: si formerebbe materia e antimateria in quantità esattamente uguale sicché a un certo momento del processo espansivo avrebbe luogo la totale annichilazione dell’una e dell’altra. Una leggerissima variazione dei valori delle costanti dell’interazione forte e debole, della carica elettrica fondamentale, renderebbe impossibile la stessa esistenza degli elementi chimici con cui sono costruite le forme biologiche. La struttura stellare e planetaria dipende in modo critico dalle costanti di natura, quali la carica elettrica elementare, la costante di Planck, la velocità della luce, la costante di gravità: valori anche leggermente diversi altererebbero in maniera determinante le stesse condizioni locali ambientali, rendendo impossibile il formarsi delle strutture biologiche e quindi, naturalmente, di quelle degli uomini che pensano l’universo.

Applichiamo questi principi alla nostra storia: il fatto stesso che noi si sia qui a parlarne, denota che quella storia è intrinsecamente falsa, non nel senso che non è vera, ma nel senso che non é. Nessun Cherubino, nessun fiato, nessuna ampolla: Noè – ma sì, diciamolo chiaro – noto ubriacone sbronzo da mattina a sera ha potuto guidare l’Arca in una navigazione non semplice. E’ questo il principio antropico enologico, che in queste meditazioni viene per la prima volta enunciato.

Evitare che chi è in stato di ebbrezza si metta al volante è un obbiettivo sacrosanto. E’ vero, ci sono altre categorie che presentano rischi anche maggiori, i piloti di aereo e di navi, chirurghi e guide alpine: ma lì si tratta di gruppi di persone circoscritti quantitativamente e localmente, e mi augurerei controlli a campione, limiti stretti, estesi anche ad altre sostanze che possono incidere sui riflessi, sul capacità di osservare e di reagire. Ma la norma attuale presenta i difetti tipici delle risposte populiste a fenomeni di allarme sociale.

Manca di proporzionalità: ciò che si vuole evitare è la guida con riflessi obnubilati. Essendo questi difficilmente misurabili da una pattuglia di polizia, se ne misura una causa indiretta, quindi, per la stessa ragione un effetto ad esso associato, l’alito. Dato che il rapporto di causa ed effetto in ognuno di questi passaggi presenta margini di errori, per essere sicuri si impongono limiti più restrittivi, il cui prodotto è un limite assurdamente più basso di cui che sarebbe necessario. Non discrimina: punisce chi, dopo una cena con gli amici, sposta la macchina un isolato più in là, e chi deve fare cento chilometri per ritornare a casa. Punisce non chi effettivamente mette in pericolo sé e gli altri, ma chi si trova nella condizione fisiologica di poterlo fare: sanziona allo stesso modo chi, avendo bevuto un po’ troppo, guida spericolatamente, e chi, proprio per quel motivo, guida in modo circospetto.

E’ fondamentalmente razzista, come dimostra l’articolo della legge che prevedeva che anche al ciclista bocciato dal palloncino venga ritirata la patente, se ce l’ha. Norma davvero inquietante nei presupposti su cui si basa: e cioè che chi una sera ha bevuto troppo, è un ubriacone cronico, a cui deve essere ridotta la libertà di movimento. Breve è il passo a considerare punibile anche chi va a piedi: a quando chi lo fa a casa propria? E’ solo per timore di vedersi bocciata la legge dalla Corte Costituzionale che il Governo ha modificato questa parte del decreto sicurezza. Ma il fatto che fosse stato approvato fotografa esattamente il clima ideologico in cui si legifera su questo argomento.

Sorvegliare e punire, diceva Foucault: qui si punisce senza sorvegliare e senza prevenire. Se si volesse indurre un comportamento di autocontrollo, dovrebbero essere riconosciuti e validati strumenti che consentano a ciascuno di monitorare il proprio stato in relazione alla norma. Pareva che venissero immessi sul mercato, ma non se ne è più sentito parlare. Forse perché anche gli strumenti usati dalle forze dell’ordine sono un po’ aleatori. O forse perché, se i margini di errori di cui si diceva nella catena riflessi alterati – tasso alcolico – alito, vengono moltiplicati anche per l’errore strumentale, tanto vale chiudere tutto e dire che il tasso ammesso è zero. Che poi è quello che qualche talebano afferma con tracotante arroganza.

I proibizionismi arbitrari, e quindi vessatori a volte finiscono nel limbo di una tollerata inefficacia. Ma qui ci sono anche fatti gravissimi che si ripetono con frequenza crescente, che destano allarme sociale e sacrosanta indignazione: bisogna evitare sia l’inefficacia sia la persecuzione, bisogna trovare una soluzione che nono spacchi la società, considerando tutti i legittimi interessi. La cultura del vino ha modificato il paesaggio italiano, per l’estensione che è venuta prendendo la coltivazione della vite, per come sono tenuti i vigneti. Ha modificato le condizioni economiche di intere regioni, ha richiesto investimenti tecnologici e commerciali, è stata l’origine di un recupero di tradizioni anche in settori contigui, con ricadute sul turismo, sulle migrazioni interne, come freno all’urbanizzazione e come spinta all’antropizzazione delle campagne. Per questo non si può guardare con indifferenza a una politica sbagliata, e alle reazioni cui finirà per dare luogo.

E’ possibile che questo vino possa far male, mi chiedevo, meditando. Che cosa ha in comune berne un bicchiere di più, con il bere compulsivo di birra prima, durante e dopo una partita di calcio? Con l’ubriacarsi in discoteca con porcherie di ogni genere? ( Devo riferire, per completezza, che ci sono psicanalisti secondo cui le sbronze del sabato sera dei ragazzi con la decadenza del narcisismo, o meglio il narcisismo oggi collima sempre più con la mancanza del senso della realtà. Quelli di sinistra a questo punto partono su Silvio Berlusconi, mentre si sa che lui è interessato a riflessi di altro tipo, e che poi ha l’autista)..

E allora educhiamo i ragazzi a bere bene. Si fanno corsi di educazione sessuale non per dare istruzioni di igiene sessuale, ma perché ragazzi e ragazze abbiano una vita ricca e soddisfacente, evitando errori e false partenze: analogamente perché non ci dovrebbero essere corsi di educazione enologica, mostrando loro le soddisfazioni che possono trarre dal loro olfatto e dalle loro papille? Perché non educarli a conoscere gli enzimi e non solo gli ormoni? Perché non imparare ad apprezzare i vini, oltre ai dialetti regionali? Si istituiscano dunque corsi che facciano media con italiano e matematica, corsi teorici ma soprattutto pratici, con tanto di sommelier di supporto, con degustazioni durante l’anno, e con assaggi alla cieca per esame. E chi beve birra, ripete per cent’anni.

Alla generale tendenza a uniformare, alla indistinta criminalizzazione che è il presupposto ideologico di questa legge, bisogna contrapporre qualcosa che vada nella direzione di distinguere, di differenziare. Questo settore produttivo nel giro di pochi decenni è riuscito a sostituire il generico (e sovente mefitico) “vino della casa” con centinaia di etichette in lotta tra loro per affermare la propria individualità. A relegare in un angolo gli indistinti Chianti o Merlot o Barbera di una volta, differenziando per appezzamento da cui proviene l’uva, il produttore che l’ha vinificato, le vicende climatiche che hanno fatto la fortuna o la sfortuna di un’annata. Per arrivare a questo risultato si sono investiti i patrimoni di famiglie, c’è andato lavoro, passione, costanza. Perché tutto deve finire nello stesso palloncino? Perché mettere nello stesso mazzo chi si ubriaca in discoteca fino all’alba e chi “medita” in una serata con amici al ristorante? La correlazione tra bere Romanée Conti e avere incidenti alla guida deve essere pressoché nulla. Chi pratica l’empirismo metodologico esige quindi che nella valutazione dell’idoneità a proseguire il viaggio entri la differenziazione in base a ciò che si è bevuto.

La cosa presenta qualche difficoltà: strumenti che consentano di risalire dall’alito alla cuvée non sono per il momento disponibili. Non oserei proporre l’autocertificazione. Esiste una tecnologia più semplice, quella che consente di staccare l’etichetta dalla bottiglia. Oggi i fogli adesivi che consentono di staccare le etichette sono costosi per cui oggi é più che altro un regalo a una parona di cassa che normalmente non distingue un Pinot nero da un Barolo. Ma con la produzione in serie non c’è ragione per cui il loro prezzo possa enormemen4e ridursi. La proposta è che le etichette staccate da tutte le bottiglie consumate vengano allegate alla ricevuta fiscale. Un codice a barre sull’etichetta consentirà all’agente della Polstrada di verificare se quel vino fa parte di un elenco di vini di qualità “in deroga”. Avremo dunque, oltre al DOC, al DOCG, al biologico, al biodinamico, anche il vino AAAA (alcool automobilisticamente adatto e approvato). La contrapposizione degli interessi avrebbe ricadute positive. In primo luogo per il fisco: infatti i clienti esigerebbero la fattura completa di etichette, con il prezzo indicato e controllabile dalla stessa base dati. Il ristoratore avrebbe interesse a non barare rilasciando etichette false per vini non AAAA, perché il tal caso si troverebbe a sovrafatturare, aumenterebbe la sua base imponibile, pagherebbe tasse su utili derivanti da vendite non effettuate.

Del principio antropico, oltre alla versione debole, Barrows e Tipler derivano da quella forte anche una versione finale: “Sistemi intelligenti che elaborano informazione devono apparire nell’universo e, una volta che lo abbiano fatto, non moriranno più”: infatti non ha senso che un universo che ha la capacità di sviluppare la vita intelligente non duri a sufficienza per svilupparla. Anche della versione enologica, qui per la prima volta enunciata, si può derivare una versione finale: anche sistemi per produrre vino di qualità devono apparire nell’universo, e una volta che l’abbiano fatto, non moriranno più. Prosit!

“Meditazioni”

A cura di Nicola Rossi
Testi di Pier Carlo Padoan, Vittorio Grilli, Gad Lerner, Lorenzo Bini Smaghi, Patrick Fairwaether, Franco Debenedetti
Tirsomedia Edizioni, Bari, dicembre 2009
per il Consorzio per la tutela del vino doc Rosso Canosa

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