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Ma quanto deve essere ridotto il contagio per cominciare a dire che ce la stiamo facendo?

Pubblicato il 19/03/2020 @ 09:55 in Giornali,Il Foglio


di Franco Debenedetti e Natale D’Amico

Tutti i giorni leggiamo il bollettino di guerra, i numeri della nostra guerra contro il Covid-19. E ognuno cerca di estrarre dai numeri le risposte alle domande che ci assillano: come stiamo andando? I sacrifici che facciamo servono a qualcosa? Domande che a loro volta ne sottintendono una perlopiù inespressa: quando ne usciremo?

Prima di tutto bisognerebbe intendersi su che cosa significano i numeri. Perché neanche quello che sembrerebbe indiscutibile, quello dei morti, in realtà lo è. Ogni giorno muoiono persone per i più vari motivi, e anche tra i ricoverati non è facile distinguere chi è morto per il Covid-19 da chi è morto con il Covid-19.
Ancor più complicata la valutazione dei contagiati: conosciamo solo lo stato di persone indotte da sintomi rilevanti a rivolgersi ai servizi sanitari, e dei pochi sottoposti a test anche senza sintomi (per esempio, perché sono state accertate frequentazioni con persone contagiate).
Come risulta dal grafico pubblicato dal Financial Times, la Corea del Sud, con 4.000 tamponi per milione di abitanti, riporta 140 casi per milione. L’Italia è seconda con circa 800 tamponi e 150 casi per milione. I dati della Francia non sono noti, mentre la Germania (700 e 30) riporta solo i dati rilevati fuori dagli ospedali. E’ chiaro che il corso dell’epidemia cambia a seconda della scelta riguardo alle persone da sottoporre a test (per la disponibilità degli strumenti e delle persone necessarie allo scopo).
Tuttavia si può fare l’ipotesi “eroica” di considerare che i rapporti, fra morti da e per, e fra contagiati ufficiali e contagiati effettivi, rimanga abbastanza costante.
L’andamento di un’epidemia è di per sé abbastanza prevedibile. Dipende principalmente dalla velocità con la quale la malattia si trasmette da una persona all’altra. Nella ipotesi più semplice: il primo contagiato il giorno successivo la trasmette a due persone, le quali a loro volta la trasmettono ciascuna ad altre due e così via. Segue cioè un andamento esponenziale: 2, 4, 8… In capo a venti giorni diventano un milione, in trenta giorni un miliardo.
Prima o poi questa tendenza esplosiva rallenta, per poi invertirsi: man mano che l’epidemia va avanti, ciascuna persona incontrerà meno persone contagiabili, o perché già contagiate, o perché più resistenti al contagio, per motivi che in larga misura ci sfuggono e che potrebbero addirittura essere genetici. Le misure di contenimento sono volte a contenere il diffondersi dell’epidemia: l’obiettivo è quello di far sì che il numero delle persone contagiate smetta di aumentare con velocità crescente; e che quindi prima rallenti, per poi sperabilmente cominciare a diminuire.
Ritornando allora al “bollettino di guerra”, il numero da considerare in primo luogo è quello progressivo dei contagiati, con la curva che descrive il suo andamento nel tempo. Questa curva dapprima è concava, cioè curvata verso l’alto, secondo l’andamento esponenziale descritto in principio; a un certo momento comincia a rallentare la sua ascesa, e quello è il punto di flesso, e quindi cresce ancora ma diventa convessa, cioè curvata verso il basso. E’ evidente che il punto cruciale è il flesso: in termini analitici, il punto in cui la derivata seconda cambia di segno.
Se si sovrappongono le curve del numero progressivo dei contagiati facendole iniziare tutte dal giorno in cui i casi confermati superano i 100 (come fa il grafico della DB su dati della John Hopkins e del WSO, che riproduce la situazione all’inizio di marzo), con il passare del tempo si riuscirà a confrontare la diversa efficacia delle misure introdotte da vari Paesi. Si vede come ormai la Cina abbia imboccato la cura discendente; come il fare tamponi a tappeto ha contento il fenomeno in Corea.

Da noi il primo atto rilevante del Governo volto a contenere la diffusione dell’epidemia risale al 25 febbraio scorso, e da allora è stata una successione di atti sempre più restrittivi. Ma il tempo trascorso è ancora poco, ed è difficile dedurre dai dati quanto le misure sono efficaci. Certamente i dati non possono ancora riflettere gli effetti delle misure più recenti, quelle più radicali. A voler essere ottimisti, comincia però già a vedersi un rallentamento nella velocità di diffusione della malattia.
Lo si ribadisce: è il segno della derivata seconda della curva dei contagi che si deve anzitutto tenere d’occhio per sapere se quello che facciamo sta avendo successo: alla ricerca del punto di flesso, che speriamo di aver già raggiunto, a partire dal quale la crescita dei contagi comincia a decelerare. Il punto di massimo, il “picco” dopo il quale il numero dei contagi comincerà a diminuire verrà dopo. Intanto occorre prepararsi per tempo a valutare (e decidere) quando sarà giunto il momento di allentare e poi rimuovere le misure d’emergenza. Gli epidemiologi dovranno dirci, e i politici prendersi la responsabilità di decidere, se sarà necessario giungere a un numero di nuovi contagi pari a zero (potrebbe volerci un tempo molto grande), o si potrà cominciare ad allentare gradualmente prima.
Nel frattempo non ci resta che affidarci allo schema logico prima proposto: ridurre le interazioni riduce la probabilità di contagio. Dunque: #stareacasa.

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