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Ma le imprese non hanno cuore?

Pubblicato il 14/09/2020 @ 10:45 in Giornali,Il Foglio


Le intuizioni di Friedman
Se quella sulla responsabilità sociale dell’impresa fosse una battaglia, l’eroe eponimo sarebbe Milton Friedman. Lui stesso osservava che la critica demolitrice della CSR (Corporate Social Responsibility), pubblicata sul New York Times Magazine il 12 settembre 1970 di cui celebriamo il mezzo secolo, “sembra che abbia conquistato il quasi completo monopolio del campo di battaglia” e, da monopolista, incassava le royalty quando le classi dirigenziali discutevano delle sue idee e gli accademici polemizzavano furiosamente contro le sue tesi, qualificando lui come una canaglia e le sue tesi contro la CSR piena di fallacie e di ipersemplificazioni. Iper-semplificazione sarebbe ridurre la sua critica della CSR a un criterio di condotta aziendale: quello che gli sta a cuore è il funzionamento di un’economia in cui le decisioni sulla allocazione di risorse scarse siano prese non in base a meccanismi politici, ma di mercato. Soprattutto è tutt’uno con la sua preoccupazione per il problema dei monopoli. La sua argomentazione non è in positivo sulle ragioni per cui “c’è una e una sola responsabilità globale dell’impresa: accrescere i suoi profitti”, ma in negativo contro coloro che sostengono che le società ne abbiano altre e diverse. Gli imprenditori che tanto parlano di responsabilità sociale d’impresa in un sistema di libera iniziativa, in realtà stanno predicando un puro e genuino comunismo: sono le marionette delle forze intellettuali che minano le basi di una società libera. Forse avrà avuto in mente la decisione della U.S. Steel di cancellare nel 1962 l’aumento del prezzo dell’acciaio, dopo che il presidente Kennedy aveva pubblicamente manifestato il proprio disaccordo e l’azienda era stata fatta oggetto di larvate minacce di rappresaglia, procedimenti antitrust, indagini fiscali sui suoi dirigenti.

La sua argomentazione inizia con un argomento logico: che cosa significa “responsabilità dell’impre – sa”? Solo le persone hanno responsabilità, mentre l’impresa è una persona artificiale. I responsabili sono dunque i proprietari o quelli che la dirigono. Il dirigente ha una diretta responsabilità verso il suo datore di lavoro, che generalmente è quella di fare quanto più profitto possibile, “restando conforme alle regole base della società, quelle incorporate nella legge e quelle incorporate nei costumi etici”. Il dirigente è quindi un agente degli individui che possiedono l’azienda e verso di loro è la sua principale responsabilità. Dire che l’impresa ha “responsabilità sociale” significa dire che deve agire in modi che sono diversi dall’interesse dei suoi proprietari.

Ci sono poi ragioni di diritto. Se un dirigente non aumenta i prezzi dei suoi prodotti per non provocare inflazione, se assume disoccupati cronici mentre è disponibile personale più qualificato, spende danaro non suo; se le decisioni che prende seguendo la sua “responsabilità sociale” riducono l’utile degli azionisti, o aumentano il prezzo per i clienti, egli lo fa con il loro danaro, danaro che essi avrebbero speso in modo diverso. Sta imponendo una tassa su di loro, e decidendo dove deve essere spesa la parte di profitto aziendale che gli spetta. Ma imporre tasse e decidere come spenderne il ricavato è azione politica, regolata da procedure che controllano che ciò avvenga in modo quanto più possibile trasparente e in accordo con le scelte degli elettori. Invece l’imprenditore assume in sé i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario: se impone tasse e spende il ricavato per fini “sociali”, agisce come un civil servant: con la differenza che questi sono eletti attraverso un processo politico.

La dottrina della “responsabilità sociale” comporta l’accettazione del principio comunista per cui sono meccanismi politici, e non di mercato, a determinare l’allocazione di risorse scarse per scopi diversi. E poi, come fa l’imprenditore a sapere come questi soldi vanno spesi? Se e in che misura l’azione della sua volontà contribuisce al fine dichiarato? Questa difficoltà dimostra, a contrario, la “virtù” dell’impresa privata in concorrenza: obbliga a essere responsabili delle proprie azioni e rende difficile che si sfruttino gli altri.

Molti imprenditori hanno un atteggiamento schizofrenico: hanno vedute di lungo termine per le cose interne alla loro impresa, ma sono incredibilmente di vista corta in materie estranee che però hanno effetto sulla sopravvivenza del sistema dell’imprenditoria privata. Rinnegare il principio dello shareholder value gli vale consensi immediati (abbiamo presente le firme dei 181 ceo in calce alla dichiarazione della Business Roundtable del settembre 2019?), ma rafforza la visione già prevalente che il perseguire gli utili è una cosa malvagia e immorale, che deve essere repressa e controllata.

“La dottrina della responsabilità sociale – scrive Friedman – presa seriamente, estenderebbe la portata del meccanismo politico a ogni attività umana. Filosoficamente non è diversa dalle più esplicite dottrine collettiviste. Differisce solo professando di credere che i fini collettivisti possano essere raggiunti senza mezzi collettivisti. Questa è la ragione per cui l’ho chiamata una dottrina fondamentalmente sovversiva in una società libera”.

La critica di Friedman va letta in relazione alle preoccupazioni dei liberali negli anni 40 e 50 per il problema dei monopoli, di come le imprese sono solite cercare mezzi politici per eliminare la concorrenza. I rimedi proposti sono molto diversi tra America post New Deal e nella Germania postnazista. Per la scuola di Friburgo, l’intreccio con la politica è una patologia della struttura economica tedesca, che avrebbe contribuito al sorgere del nazismo. L’econo – mia della grande Prussia ne aveva servito gli obbiettivi politici, ma lo stato, sponsorizzando i cartelli, aveva assicurato alle imprese il controllo dei mercati così bloccando il meccanismo dei prezzi. Il rimedio contro i monopoli per loro consisteva in uno stato forte che sapesse difendersi dall’intrusione degli interessi d’impresa e mantenere concorrenziali i mercati. Nell’America della Grande Depressione era cresciuto il numero di quanti reclamavano l’intervento dello stato per controllare le grandi imprese. Per la scuola di Chicago i monopoli sostenuti dal governo sono il problema centrale per smantellare il processo di graduale collettivizzazione del New Deal. Per tagliare il cordone ombelicale tra interessi degli affari e potere politico, ci vuole uno stato debole, che si limiti a regolare.

Che i manager dovessero fare uso della CSR per rafforzare la legittimità delle società e il corporativismo del New Deal, era il pensiero mainstream. Che le corporation, in ragione della loro dimensione e importanza, dovessero offrire dei vantaggi e avessero dei doveri verso i loro stakeholder, era la legge ferrea della social responsibility. Propositi supportati dai manager di società molto grandi, U.S. Steel, General Electric, Standard Oil. Nel 1931, Gerard Swope della General Electric propose la formazione di associazioni industriali con supervisione dello stato per controllare la produzione e stabilizzare i prezzi e così contrastare la depressione. Per Frank Abrams, della Standard Oil, c’era un nesso diretto tra dimensione dell’azienda e responsabilità sociale. Per Adolf Berle i manager devono considerare l’azienda moderna come un’istituzione pubblica. Per Howard Bowen le grandi aziende, poiché possono contare su ricavi stabili, devono prendere in considerazione cose diverse dall’im – mediato profitto. Per Friedman i monopoli possono derivare da brevetti, da accordi tra privati, da intese collusive tra imprese o con i sindacati: accordi che però sono instabili se non possono contare sul sostegno dei governi. Questa è probabilmente la più importante causa del potere di monopolio, tramite tariffe, tasse, agenzie regolatrici: la CSR è lo strumento per nascondere la cattura del regolatore. Per accedere all’influenza politica manager e amministratori sono indotti a comportarsi da politici, e questo è il primo passo verso il comunismo.

La CSR sovente segnala l’esistenza di un monopolio, perché solo società monopoliste hanno le risorse da spendere per CSR e le motivazioni per farlo: devono legittimare i loro monopoli facendo appello alle loro presunte responsabilità sociali. Le iniziative di CSR non hanno solo un effetto di alterare la concorrenza di mercato, hanno anche il potere di politicizzare il funzionamento interno dell’impresa. Anche se c’è adesione volontaria alle politiche del governo, manager e sindacati che rispondono a queste richieste si comportano politicamente, non reagiscono ai meccanismi di prezzo, ma a richieste politiche.

Solo se le aziende hanno una posizione di monopolio, possono perseguire un obbiettivo diverso dal profitto: quelle di piccole dimensioni finirebbero per fallire. In un mercato concorrenziale, la CSR, se realmente altruistica, porta l’azienda al fallimento; se perseguita per ragioni di profitto, è fraudolenta; se non genera utili, ma continua a essere praticata, segnala una situazione di monopolio. In tutti i casi induce i manager a comportarsi da politici: per ridurre gli attacchi alla posizione di monopolio, per deviare le critiche, o per avere influenza politica.

La sua posizione non è né pro business né anti stato. Ma, ad esempio, trovava offensiva la propaganda della Exxon che si rappresentava come interessata preminentemente nel preservare l’ambiente: del business, quando sostiene di lavorare per il bene pubblico, non ci si deve fidare. Lo diceva già Adam Smith: “Non ho mai trovato qualcosa di buono fatto da coloro che ostentano di commerciare per il bene pubblico”. E noi aggiungeremmo: men che mai se essi stessi sono pubblici.

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