Ma il lavoro parziale non è mai di «serie B»

novembre 28, 1994


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


Due milioni di posti di la­voro nella sola Germa­nia potrebbero essere creati se il lavoro a tempo par­ziale venisse adottato in modo ampiamente diffuso. Questo il risultato clamoroso di uno stu­dio di Helmut Hagemann, ricer­catore della McKinsey.

La quasi totalità delle indu­strie europee ed americane nel­l’ultimo decennio è stata interessata da un grande processo di riduzione di costi. Questo ha significato razionalizzazioni, ri­strutturazioni, re-engineering, quasi sempre risoltisi in una massiccia riduzione della forza lavoro, con ingentissimi costi per le imprese e per lo Stato: e per i lavoratori che ne sono stati colpiti. La strada della riduzio­ne dell’orario di lavoro è stata, tranne pochissime eccezioni, subita dalle aziende, non valu­tata per le sue potenzialità, mentre da parte sindacale è sta­ta tradotta nell’impraticabile slogan del «lavorare meno, la­vorare tutti».

Invece, secondo Hagemann, l’applicazione del tempo par­ziale potrebbe avere risultati incredibilmente positivi nella creazione di posti di lavoro: estrapolando i 3000 casi analiz­zati in 5 aziende in vari settori industriali nel corso di due an­ni, ha dedotto: che il 60% dei la­vori sono «divisibili», dai punti di vista economico, organizzati­vo e tecnico; che il 38% dei dipendenti potrebbero essere in­teressati a passare al tempo parziale; quindi che nel 24% dei casi la fattibilità organizzativa e la disponibilità del personale avrebbero un punto d’incontro. Questa percentuale, applicata ai 23,6 milioni di occupati della Germania Occidentale, dà appunto 1,4 nuovi posti di lavoro a tempo pieno oppure 1,9 milio­ni a tempo parziale. Non solo, ma ciò risulterebbe in un notevole guadagno per le aziende: i vantaggi in termini di maggiore produttività, minore assenteismo, maggiore uso del capitale fisso, rapidità nel rispondere alle variazioni della domanda, superano i maggiori costi organizzativi, e lasciano alle aziende un margine valutato del 20% sul costo del personale che passa al tempo parziale. Senza contare che le aziende risparmierebbero in incentivi alla mobilità, ed eviterebbero le tensioni e la demotivazione che si ac­compagnano alle massicce riduzioni di personale.

Perché la ricetta funzioni, è essenziale che essa venga usata correttamente, in particolare che vengano rispettate tre con­dizioni:

  1. La partecipazione deve es­sere volontaria: l’impresa ed il lavoratore devono individuare dove c’è un interesse comune a dividere il lavoro in moduli a tempo parziale.
  2. Il programma non si presta a soluzioni generalizzate, ma deve partire dall’analisi dei po­sti di lavoro in cui l’uso del tem­po parziale può portare a signi­ficativi aumenti di produttività.

Il programma avrà succes­so se sarà adottato da una larga parte della popolazione impie­gata, e ciò richiede che la riduzione di paga sia sensibilmente inferiore alla riduzione del tem­po lavorativo.

Per le imprese, lo studio valu­ta il vantaggio dal 3 al 5% dei costi del personale e del capitale (senza considerare i risparmi sui costi della messa in mobilità ed i vantaggi di non perdere un prezioso capitale umano). Si giustifica dunque che il tema sia affrontato dalle dirigenze aziendali come si fa per i pro­getti strategici: valutando il po­tenziale di maggiore produtti­vità; elaborando con le organiz­zazioni dei lavoratori adeguati schemi di lavoro; impegnandosi a creare un clima aziendale favorevole alla sua accettazione.

Quest’ultimo è l’argomento cruciale: i lavori a tempo par­ziale sono ,sovente considerati dai lavoratori come di seconda classe, mentre i dirigenti li con­siderano disruptivi di pratiche organizzative consolidate. Su­perare questo stigma negativo richiede quindi uno sforzo non indifferente nel ridisegnare l’organizzazione del lavoro, ma soprattutto nel comunicarne le condizioni. Per evitare che ri­sulti discriminante verso i lavoratori a tempo pieno, bisogna che i vantaggi per l’azienda del ricorso al tempo parziale siano chiaramente misurabili; perché sia accettabile, bisogna che il passaggio al tempo parziale sia reversibile, non discriminante ai fini degli aumenti di stipendio o dell’avanzamento in carriera; ovviamente i lavoratori che lo accettano non devono essere i primi ad incorrere nel li­cenziamento nel caso in cui l’a­zienda dovesse ricorrervi.

E’ ovvio che i risultati della ricerca non sono immediata­mente trasferibili dalla Germa­nia all’Italia: essi dipendono innanzitutto dal livello assoluto del salario (è proprio questo che ha consentito la sua implementazione in VW); regime pensionistico, che non deve pena­lizzare troppo chi sceglie di strutturare una parte della pro­pria vita di lavoro a tempo parziale; da come i sussidi di di­soccupazione sono legati al salario dell’ultimo periodo; dal rapporto tra l’ammontare dei sussidi a quello del salario par­ziale; l’uso di questo strumento richiederebbe dunque interven­ti anche sul piano legislativo. Ma per le ragioni di fondo, so­prattutto per il suo potenziale per aumentare produttività e flessibilità, meriterebbe che uno studio ne verificasse la por­tata nel contesto italiano. So­prattutto meriterebbe un atteg­giamento meno pregiudizialmente negativo da parte sia de­gli imprenditori che delle orga­nizzazioni dei lavoratori. Certi slogan discendono dalla errata concezione che le condizioni di mercato fissino in modo deter­ministico lo stock di lavoro (e di massa salariale) possibile e che il problema sia quello di come dividerlo. Invece, le fluttuazio­ni della domanda sono la natura stessa del mercato: la sua di­mensione dipende anche dalla capacità delle aziende di saper­le sfruttare.

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