Ma è davvero colpa delle imprese?

giugno 9, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


«E’ mancata la risposta dell’offerta. L’erosione delle nostre quote di mercato risulta più am­pia di quella imputabile ai costi relativi». Nelle considerazioni finali del Governatore quest’an­no c’erano parole che sono par­se severe verso gli imprendito­ri: non è colpa solo della politi­ca e del Governo se il sistema Italia ha perso drammaticamen­te in competitività rispetto ai partner europei. Lo spunto è stato colto subito da Cofferati «Le amnesie degli industriali e i sacrifici per l’euro» La Repub­blica del 4 giugno); e l’avvoca­to Agnelli ha positivamente commentato l’equilibrio e l’equanimità che, anche grazie a questo passaggio, connotano l’intero ragionamento sviluppa­to da Antonio Fazio. Ma a ben vedere si tratta di un rilievo che gli imprenditori non hanno nes­suna ragione di prendere come un’ accusa.


La produttività del lavoro è cresciuta in Italia nel quinquen­nio dello 0,7%, contro il 4% degli altri grandi Paesi industriali. Ma, come ha rile­vato Ugo Meroni (Affari e Finanza del 5 giugno) «la mancata risposta da parte dell’of­ferta in termini di composizione e qualità della produzione [...]non rappre­sentano la causa quanto l’effetto di un’economia che non investe, poiché il miglioramento del trend della pro­duttività del lavo­ro è strettamente connesso con l’accumulazione dello stock di capitale. I nessi causali sono da Fazio invertiti, poiché sono gli investimenti quale componente della domanda effettiva il prius della crescita dello stock di capitale e della produttività del lavoro».

«Perché — si domanda Pao­lo Leon sull’Unità del 6 giugno — le imprese italiane investo­no poco e innovano ancora me­no?». E’ lecito chiederselo, pur­ché sia chiaro che con «impre­se italiane» si intendono quelle che operano in Italia, e non già quelle la cui proprietà è di citta­dini italiani. Il fatto che l’Italia sia il fanalino di coda in Euro­pa quanto a capacità di attrarre investimenti esteri dovrebbe sgombrare il campo dalla falla­cia che la bassa propensione agli investimenti dipenda da qualche caratteristica antropolo­gica della classe degli imprendi­tori italiani, o da loro comporta­menti di gruppo, spontanei o indotti: quella che osserviamo e lamentiamo è la risultante di uno sterminato numero di deci­sioni assunte da milioni di imprenditori.

Non si intende con questo attribuire aprioristicamente alle decisioni degli imprenditori il dono della razionalità. È certa­mente lecito esprimere un giudi­zio critico sul risultato comples­sivo di singole libere decisioni: il rischio è che c’è sempre qual­cuno che ne trae spunto per confrontare il dato di realtà con quello che avrebbe potuto espri­mere una qualche superiore razionalità esterna, a cui i com­portamenti degli individui do­vrebbero conformarsi. Riemer­ge la nostalgia verso la pianificazione, magari nella forma che da noi era stata affidata alle imprese di Stato. A esse sembra si riferisca Sergio Cofferati quando si chiede se «la ricerca che ha fatto forte l’impresa italiana degli anni ’60» sia davve­ro un reperto del passato». Non è certo per questo motivo che i sindacati subordinarono la loro accettazione delle privatizzazioni alla conservazione dei peri­metri aziendali dei grandi mo­nopoli pubblici: volevano mantenere il potere sindacale, e il risultato fu di rendere più lun­go e difficile lo smantellamen­to del potere di monopolio.

È diffusa l’opinione che la capacità di innovare e la pro­pensione a investire siano positivamente correlate alla dimen­sione di impresa. In realtà le cose sono meno semplici, si po­trebbe perfino supporre che sia vero il contrario: negli USA i capitali per finanziare piccole imprese innovative sono forniti anche da grandi aziende che sanno come le loro strutture gerarchiche e i processi decisiona­li pongano vincoli soffocanti all’innovazione. Se invece si vuole lamentare il ridotto nume­ro delle imprese italiane di grande dimensione, si tratta di un fatto che è esso stesso risul­tante di quei vincoli che frena­no la propensione agli investi­menti. Un altro aspetto del pro­blema di cui si discute, non una sua spiegazione.

Servizi pubblici, compresi quelli forniti dalla Pubblica Amministrazione; ambiente normativo, compreso quello sul lavoro e sulla previdenza; regime fiscale e contributivo; costo del danaro e disponibilità di finanziamenti; contendibilità del controllo e leggi fallimenta­ri: è il sistema economico nel suo complesso ciò che influen­za le decisioni di investimento degli imprenditori. In questo si­stema, Bankitalia interveniva in prima persona quando aveva da sola il potere di determinare il tasso di sconto. Oggi lo fa mediatamente, membro del Si­stema delle Banche Centrali; e direttamente esercitando i com­piti di vigilanza bancaria e di antitrust bancario che la legge le conferisce.

Andrebbe di conseguenza ri­dimensionata, secondo Euge­nio Scalfari (“Pecoraro Gay Pri­de e Banca d’Italia”, La Repub­blica del 4 Giugno) l’importan­za che si attribuisce alle parole del Governatore: ormai – sostie­ne Scalfari – la politica moneta­ria si fa solo a Francoforte, e Fazio conta solo più per un di­ciassettesimo. Ma ciò contrasta radicalmente con il rilievo che i singoli banchieri nazionali continuano ad avere nel Forum per la stabilità internazionale,  nel G10, nella Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, nonché all’interno di quell’organo che, come Fazio ha sottolineato fin dall’inizio, si è rivelato assai importante nel­le determinazioni delle linee della Bce, e cioè il consiglio in cui gli 11 Governatori affianca­no Wim Duisemberg e la sua squadra ristretta.

Nel sistema descritto da Fa-zio, dice Scalfari, sono più le incognite che le equazioni: e vivaddio, vien da rispondere, che più nessuno pensa che pos­sa essere il contrario. L’econo­mia non è una scienza esatta, forse neppure una scienza. Le considerazioni finali non emet­tono sentenze né anno pagel­le. Un conto è sostenere che i rilievi su cui tanto si è discusso non sono un’accusa, altro smi­nuirne la portata. Le considera­zioni del Governatore sono un fatto che influenza e modifica i comportamenti degli operatori. Proprio sulla funzione di inve­stimento delle imprese sono sta­ti Franco Modigliani -maestro di Fazio e Merton Miller ­che purtroppo pochi giorni fa ci ha lasciato — a dimostrare la relazione che lega la politica monetaria all’imposizione fisca­le e alle imperfezioni del merca­to dei capitali. Che oggi Fazio alla prima contribuisca solo per quota parte, e che gli altri due pilastri spettino a Governo ed operatori, nulla leva al fatto che Bankitalia resta l’istituzio­ne meglio in grado di segnare la via dell’efficienza a chi do­vrà poi percorrerla.

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