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Luigi Sturzo: contro l’economia sociale e lo statalismo

Pubblicato il 09/02/1996 @ 16:17 in Convegni

Roma, 9 febbraio 1996

Convegno: ‘Se ci fosse Don Sturzo’

Amici di liberal

Invitato a parlare dell’attualità del pensiero di Luigi Sturzo in materia di economia, non essendone conoscitore né per ragioni storiche né per studi accademici, mi ritengo dispensato dal compito di delinearne, proprio qui, e proprio di fronte a tanti che ne sono studiosi esegeti e interpreti autorevolissimi, l’impianto teoretico e la ricchissima articolazione: dall’esperienza municipale a Caltagirone, attraverso la fondazione del Partito popolare, l’esperienza parlamentare, l’opposizione al fascismo, gli approfondimenti durante il lungo esilio, fino alle battaglie politiche dei suoi ultimi sette anni.

Ho accolto l’invito semplicemente in quanto sostenitore del mercato e della concorrenza, in questo non meno isolato in parlamento, aldilà delle parole, di quanto lo fosse Sturzo alla sua epoca.
È fin troppo facile trovare oggi elementi di attualità spigolando nella vastissima pubblicistica sturziana di quegli ultimi anni, e nell’antistatalismo che la percorre con ostinata continuità. Sarebbe poco corretto storicamente e riduttivo rispetto all’ampiezza del pensiero sturziano cedere alla tentazione di applicare immediatamente alla realtà di oggi e fin alle polemiche di questi giorni le sue invettive contro la presenza statale in economica, condotte con una violenza che a Salvemini era parsa quella di un cattolico-giansenista e a De Rosa di un giacobinismo cristiano. Poiché la storia non si fa con i se è certo illuminante constatare quanto le preoccupazioni di Sturzo fossero fondate, quanto le sue fossero profezie-verità; ma sarebbe sterile querelle immaginare che cosa sarebbe potuto accadere ove Sturzo fosse stato ascoltato. Il fatto è che Sturzo fu pesantemente perdente in ordine agli indirizzi che concretamente furono assunti in Italia negli anni Cinquanta. Si potrebbe pensare che questo, per un politico, è ciò che conta. Eppure ci sono uomini politici pienamente consapevoli che la propria voce resta isolata, ma che decidono di continuare a levarla perché altri dopo di loro, appartenendo alla medesima tradizione, possano successivamente trovarvi motivi di continuità, senza subire sconfessioni ideali connesse al dover attingere altrove. Sturzo era uno di questi.
Per cogliere l’attualità del pensiero sturziano conviene dunque chiedersi se oggi, in un contesto così mutato all’interno e all’esterno del nostro paese, non si possano ravvisare in Sturzo i temi per un rilancio della presenza cattolica che sia più adeguata al ruolo storico e all’importanza di tale area culturale in Italia. Anche per chi di quell’area politica e culturale non fa parte, l’eclisse della rappresentanza politica della cultura cattolica, dopo la storica sconfitta che essa ha subito negli ultimi anni, rappresenta da un lato un problema, dall’altro Io spreco di una risorsa indispensabile alla nostra vita politica. L’attualità del pensiero sturziano sarà dunque da cogliersi non solo nella validità delle sue profezie, quanto in ciò che Sturzo può ancora dire ai cattolici e che può essere funzionale a un rilancio della loro presenza politica. Naturalmente mi avventuro in questi consigli senza alcuna intenzione di insegnare ad altri ciò che devono fare.

Sturzo fu inascoltato da tutte le parti politiche e, secondo alcuni, fin dalle gerarchie ecclesiastiche («quel buon prete dovrebbe pur rendersi conto che i tempi sono cambiati, ci vogliono uomini nuovi per situazioni nuove»). Sturzo, se ebbe ovviamente ragione nel denunciare le degenerazioni dell’intervento statale, tuttavia non colse le ragioni sociali e politiche della sua inevitabilità. Questa in buona sostanza il refrain dei suoi critici al suo ritorno in Italia negli anni Cinquanta. Il paese che egli voleva non esisteva nella realtà: non esisteva all’epoca della collaborazione con Giolitti, e non esisteva certo dopo il fascismo. Se ne rendeva conto Sturzo quando scriveva della «triste eredità che ci viene, è vero, dal periodo della unificazione, ma che è stata intensificata nel periodo fascista e che ora incombe su tutti come una necessità fatale». Il modello sturziano di decentramento, di smobilitazione dell’apparato protezionistico del fascismo, non era proponibile a ceti medi la cui visione dello Stato era profondamente cambiata, che avevano interiorizzato l’abitudine mentale alla pubblicizzazione di vasti settori della vita sociale. I suoi contemporanei lo accusavano di non aver assimilato il keynesismo. Non si vuole qui discutere se le politiche che portarono all’espansione dell’Iri e alla creazione dell’Eni fossero, a rigor di termini, keynesiane, né se esse siano state funzionali a superare il grave ritardo con cui l’Italia si incamminò sulla via dello sviluppo. Certo egli non colse, di quella temperie culturale, entusiasmi che anche a posteriori non ci si sente di condannare, come invece vanno condannate le interpretazioni che ne dettero i tardi epigoni: il momento di esaltazione programmatoria, l’illusione, non certo ignobile, che fosse possibile indirizzare questo paese verso un più accelerato sviluppo, pianificarne e guidarne i destini; quegli entusiasmi che nostalgicamente ricordava Mario Pirani in un articolo su Repubblica di qualche settimana or sono.
Oggi che la crisi dello Stato e del modello socialdemocratico obbliga il pubblico a ritirarsi, sarebbe ingiusto rileggere quel periodo solo attraverso le polemiche di Sturzo contro lo statalismo, contro il suo teorizzatore La Pira e contro il suo massimo realizzatore Mattei. Sarebbe poco rispettoso ridurre le ragioni dei La Pira e dei Mattei alla nuda e pura necessità di estendere la presenza democristiana in gangli vitali della vita nazionale per rafforzarne l’area di consenso. Se questa preoccupazione c’era, c’era anche – è giusto riconoscerlo con equanimità – una visione alta che la sinistra Dc ebbe in quegli anni della trasformazione in corso nel paese. Tra i molti documenti emblematici dell’economia sociale propugnata dalla sinistra Dc, ricordo il discorso con cui Ardigò al convegno di S. Pellegrino nel settembre 1961 poneva i fondamenti della politica con cui la Dc di Moro apriva al centro sinistra. Si è in presenza, dice Ardigò, di un processo che «ha falciato l’erba sotto i piedi alla base sociologica maggioritaria del popolarismo e del solidarismo degasperiano, cioè: i coltivatori agricoli, i ceti medi rurali e dei centri urbani minori. Lo stato della socializzazione della grande politica di sviluppo industriale in corso nel nostro paese, contrasta con la conservazione di buona parte della base sociologica dell’elettorato Dc. Le analisi di sociologia elettorale ci dicono che il voto Dc è stato ed è soprattutto voto rurale ed è un voto specie di coltivatori diretti. È un voto dei già stabilizzati ceti medi urbani. Ebbene se noi come De non pensiamo di prendere atto di questo stato di cose, la conservazione dell’attuale linea industriale ci scalzerà sempre più le basi sociali di consenso. Sturzo e De Gasperi si sono arrestati per così dire alle soglie della socializzazione, alle soglie dell’industria moderna, specie della grande industria e dello stato operatore di sviluppo pianificato. Dossetti e Vanoni hanno proposto nuovi valori, in primo luogo il valore dello stato artefice di sviluppo armonico, lo stato della massima occupazione, superatore dei maggiori squilibri sociali. La nuova sintesi, pena l’involuzione, ci impone innanzitutto, come azione di partito, che si apra alla comprensione alla penetrazione e alla guida politica dei nuovi ceti sociali operai e medi». (1)

Sul piano politico la battaglia di Sturzo non poteva essere dunque vincente. Su quali classi sociali poteva contare il progetto sturziano? Su quali strati elettorali, tenuto conto della presenza del Pci, della sua egemonia culturale, delle politiche che praticavano gli altri Stati europei? Egli stesso riconosceva che a «formare un’opinione pubblica estesa e forte osta la mentalità generalizzata in Italia dal fascismo». Con Ardigò, Dossetti e Vanoni la Dc guardava all’esperienza di governo dei laburisti in Gran Bretagna e alla Sozialmarktwirtschaft di Adenauer e Erhardt. Al riparo della stabilità monetaria garantita dalla linea Einaudi-Menichella , forte dell’ingente accumulazione di capitali e del deciso balzo in avanti realizzato dal settore industriale negli anni Cinquanta, la Dc indicava un forte intervento statale come terreno d’elezione sul quale realizzare un disegno di stabilizzazione del quadro politico nazionale. Un disegno che affondava le radici nelle convergenze realizzate nella Costituente con la sinistra nel delineare le parti dedicate all’economia in una Costituzione che, non a caso, «non menziona né l’imprenditore, né il mercato, né la concorrenza, ravvisando in direttamente – è Guido Carli a scriverlo nella sua relazione a Brescia, il 24 Aprile 1987, Povertà spirituale in un’Italia ricca – nel profitto cosa disdicevole e neppure meritevole di essere tutelata». Un disegno di coinvolgimento a tappe nel-l’ area di governo prima del Psi, nei lunghi anni del centrosinistra, poi del Pci, con la solidarietà nazionale.
Sturzo non era affatto indifferente al nesso tra le politiche economiche e il disegno politico più ampio a cui dovevano servire. Sturzo non era un Savonarola visionario, anch’egli si poneva il problema della stabilizzazione del quadro politico. La sua però era una proposta radicalmente diversa. «L’apertura a sinistra – scriveva sul Giornale d’Italia il 27 marzo 1955 – motto magico per non pochi della politica militante, parte dalla convinzione che solo a sinistra si trovi la soluzione dei mali sociali… L’errore è la cieca fede nello statalismo economico e la ostilità crescente verso l’iniziativa privata, ogniqualvolta tale alternativa venga presentata ai partiti e alle Camere. Ne consegue che lo Stato ha sempre bisogno di maggiori mezzi per far fronte alle continue richieste di intervento. E mentre viene scoraggiata l’attività dei cittadini, viene inflazionata quella degli enti creati nel passato e moltiplicati nel presente… Credono gli amici della sinistra Dc che sia questa la via per il benessere del nostro paese? E che ciò risponda ai più sani criteri di politica democratica e agli ideali stessi del loro partito?»
Sturzo si batté per un’alternanza alla quale serviva il mercato, perché l’alternanza doveva essere tra la Dc, forza popolare, e un polo borghese-moderato. Per questo il suo rifiuto della proporzionale e ciò nonostante «si può dire che nel 1919 io ne sia stato l’autore. In fondo non sono io che ho cambiato pensiero; sono state le situazioni politiche del 1954 che sono state diverse da quelle del 1919». Sturzo sempre sul Giornale d’Italia del 24 Gennaio 1954 scriveva: «Oggi la proporzionale ha spezzato la classe borghese… e l’ha spezzata attraverso il radicalismo del PdA, il repubblicanesimo di sinistra dei repubblicani storici, il liberismo destro, sinistro e centrista dei piccoli nuclei liberali, rimasti a galla nel naufragio. Quale gruppo borghese può rappresentare oggi 1′ alternativa di governo? Manca la possibilità di ricorrere alle destre per un’alternativa di governo legale e parlamentare. La proporzionale è oggi dannosa perché impedisce la formazione di un terzo partito omogeneo e valido da presentarsi come opposizione legale e come alternativa alla DC».
Egli ammonì per anni inascoltato sul Mondo che ogni idea di terza forza laica era condannata col proporzionale a fallire.
«Il laicismo non ha coagulato né coagulerà nessuna terza forza o nessun partito o coalizione permanente di partiti così da divenire l’opposizione costituzionale alla Dc e da creare lo stato d’animo nazionale di aspettativa per l’alternanza di partiti di governo, quando il pericolo comunista sarà attenuato o allontanato. Il laicismo può essere una posizione culturale per gli intellettuali; una posizione religiosa per coloro che si rifanno alla tradizione dei ghibellini, dei liberipensatori, dei liberali agnostici o anche mezzo-credenti che aspiravano, nel passato, all’eliminazione dell’ingerenza ecclesiastica nella vita dello Stato moderno. Posizioni storiche che possono dirsi superate, in quanto i residui attuali fissati nel Concordato non hanno creato né creano situazioni antagonistiche fra Stato e Chiesa, e in quanto la stessa funzione religiosa della Chiesa in pace con lo Stato non solo è un bene morale per la società, ma un bene valutabile politicamente per il paese… Coloro che oggi credono che il titolo di liberale valga a creare un alone di fiducia generale o che il cismo possa destare gli entusiasmi degli italiani, sono degli illusi».

Si diceva del clima culturale dell’epoca. Oggi noi abbiamo acquisito le ragioni, anche teoriche, della fallacia di quelle illusioni dirigistiche. Ma non dimentichiamo che von Hayek smise per vent’anni di scrivere contro il keynesismo, nella convinzione che si trattasse di un’ideologia non contrastabile prima del suo fallimento. Sturzo invece non tacque. Perché? Solo perché temeva che le politiche ‘sociali’ avrebbero bolscevistizzato il paese? Se così fosse, ci si potrebbe limitare a constatare che così non fu: l’Italia non è diventata un paese comunista.In realtà c’è in Sturzo una preoccupazione sovraordinata rispetto a quel rischio: la preoccupazione che in un’economia che non è del tutto economia di comando e non è economia di mercato si possa corrompere la tempra dello Stato e della politica. Egli teme che si possa ripetere questo peccato – quello del fascismo – contro la moralità. Scriveva su La Via nel 1951: «L-assurdo dell’economia italiana sta nel fatto di essere apparentemente privatistica e di mercato, ma effettivamente controllata da uno Stato che pretende dirigere e non dirige, mentre il privato cerca di farla al dirigente e al cliente e la fa a se stesso». Anche von Hayek, a chi voleva confutare le tesi della sua Via della schiavitù osservando che sei anni di governo socialista in Inghilterra non avevano prodotto uno stato totalitario, scriveva che così «si perde di vista uno dei punti principali, ovvero che il cambiamento prodotto da un controllo estensivo dello Stato è di ordine psicologico: un’alterazione del carattere della gente. E un fenomeno che per forza di cose si produce con lentezza; un processo che non richiede qualche anno ma probabilmente una o due generazioni». Non era dunque solo la paura della bolscevizzazione del paese quella che spingeva Sturzo a chiedere alla Dc di seguire la strada della Germania nella liberalizzazione delle strutture economiche, nello smantellamento degli enti e istituti ereditati dal passato regime. Sturzo poneva un problema che allora fu trascurato da tutti, ma che successivamente si sarebbe rivelato centrale. Esaurite, alla ricerca di tutte le possibilità di aggregazione della sinistra, le spinte innovatrici e riformatrici, spinte all’estremo limite le scelte di pubblicizzazione e di statalizzazione, nel tentativo di coinvolgervi anche il Pci, gli anni Ottanta dimostreranno quanto fondata e meritevole di essere messa all’ordine del giorno fosse la sua preoccupazione dei rischi di corruzione dello Stato e della politica. Sicché oggi la radice prima della crisi politica dei cattolici rispetto al giudizio dell’opinione pubblica sta proprio in quella corruzione che Sturzo temeva.
Per questo Sturzo non tacque: e oggi le sue parole forniscono argomenti a coloro che vogliono ricostruire una di gnità alla presenza dei cattolici nella vita politica più commisurata al rilievo innegabile che essi hanno avuto e al posto che hanno nella cultura politica italiana.

Ora si deve riconoscere che negli ultimi 10 anni, da parte di esponenti di rilievo dei cattolici impegnati in politica e anche della sinistra Dc, si è dimostrata consapevolezza e un’azione incisiva in direzione del risanamento della finanza pubblica. Un nome per tutti, Beniamino Andreatta. Si tratta di un’acquisizione importante rispetto agli anni passati. Anche questo è un ricupero del rigore sturziano, quello del discorso di Milano del 1920 le cui analisi, specie sulle cause della svalutazione, suscitarono l’entusiasmo di Pareto. Scrive Pareto: «rimasi meravigliato dalla sicurezza delle dottrine, dalla scienza che in esso si manifestano e mi toccò persuadermi che molte erano le cose da reputarsi ottime, o buone, poche da doversi contrastare o stimare manchevoli di compimento».
Ma, dato questo riconoscimento, nasce un interrogativo che pongo innanzitutto a molti tra voi qui presenti, perché io non sono in grado di scioglierlo. Perché la decisione con cui si è posto mano, da parte di esponenti di rilievo della sinistra cattolica, al risanamento del bilancio dello Stato, non si riscontra invece con altrettanta evidenza in azioni volte a esigere il ritrarsi dello Stato dalle attività economiche, sia quando si tratta di imprese industriali sia quando si tratta dei servizi, che privati in concorrenza tra loro possono offrire con maggiore efficienza ai cittadini? È mia opinione che proprio ciò che diceva Sturzo su Iri ed Eni, ma anche sulla scuola, sull’assistenza e fin sui teatri lirici, potrebbe essere funzionale a un rilancio della presenza dei cattolica in politica.
È invece non solo opinione corrente ma quotidiana constatazione che proprio in questo campo manca a essi quella decisa consapevolezza che hanno saputo dimostrare in tema di finanza pubblica. C’è un documento interessante a questo proposito, un articolo scritto da Romano Prodi per il Mulino nel 1985, ‘Don Sturzo e l’economia politica’. Dove la ragion d’essere dell’IRI viene vindicatum costruendo un’interpretazione del pensiero sturziano che Prodi vorrebbe più corretta di quella che Sturzo medesimo espresse in merito all’esistenza dell’Iri in generale e a suoi specifici interventi in particolare (si pensi solo alla siderurgia di Taranto). Allo scopo Prodi ricorre a molti degli argomenti della pubblicistica antisturziana: «L’Iri è per il vecchio esule antifascista un puro prodotto del fascismo e come tale da rifiutare». Si ricorda la diversità di opinione tra lui e De Gasperi, «legata probabilmente a diverse biografie: l’ amministrazione asburgica non dovette segnare tanto il trentino De Gasperi quanto quella giolittiana segnò la memoria del siciliano Sturzo». Sturzo in esilio non poté seguire le vicende dell’Iri, male informato dalle notizie che gli arrivavano. Parla solo attingendo alla propria memoria. Gli viene quasi rimproverato di sostenere «con pertinacia» che «i deficit delle ferrovie e delle poste possano e debbano essere eliminati». Sturzo non ebbe modo e possibilità di capire il tipo di trasformazioni che il Paese aveva vissuto, «e forse non ne ebbe neppure una buona disponibilità». Prodi gli rimprovera di aver letto Mosca ma di non aver «trovato il modo di fare i conti con Keynes». In breve «non sembrava né disponibile né interessato al tema», l’esilio «non gli consentiva di inquadrare i nuovi dati in uno schema concettuale con cui fosse possibile capirli ed analizzarli».
Rispetto a 10 anni fa, quando scrisse l’articolo, si può dare a Prodi un’attenuante. Non era ancora così evidente che l’unificazione dell’Europa si sarebbe fatta in un sistema il cui asse portante è il mercato e non lo Stato socialdemocratico. Ma oggi le condizioni sono mutate, e nessuna forza politica, né i cattolici né la sinistra, si può candidare alla guida politica del paese senza ricuperare i temi che in proposito Sturzo, in un contesto diverso, proponeva. Sarebbe dunque interessante sapere se ancor oggi Prodi pensa dell’Iri ciò che ne scrisse 10 anni fa, oggi che egli è candidato alla guida del governo e per l’Iri si pone il problema della liquidazione invocata 40 anni fa dal prete di Caltagirone.

Mi si potrebbe obbiettare tuttavia che l’Europa starebbe già entrando in una fase successiva a quella della crisi dello Stato socialdemocratico provocata dai successi delle politiche liberiste della Thatcher e di Reagan. Che non a caso le obbiezioni di fondo a Maastricht, gli scioperi in Francia, le riserve della Spd. le critiche di Modigliani, testimoniano che l’Europa non può avere come obbiettivo solo la stabilità monetaria e la sconfitta dell’inflazione, ma che deve assumere prioritariamente l’ obbiettivo della lotta alla disoccupazione. Si tratterebbe in tal caso di una versione più aggiornata delle critiche di chi ravvisa in Sturzo un liberista-keynesiano, sia pure illuminato dalla fede. Ma qui entriamo in un terreno apertissimo al dibattito.
La mia personale opinione è tuttavia precisa: la scelta antistatalista di Sturzo è a maggior ragione la risposta giusta: e dico a maggior ragione pensando a quanto scriveva Sturzo sul rischio che educa: «Vexatio dat intellectum; l’uomo per comprendere e quindi operare ha bisogno di una costrizione, sia spirituale che materiale; il rischio contribuisce all’allenamento delle forze, alla speculazione intellettiva, alla preparazione dei piani, al superamento degli ostacoli; favorisce lo spirito di conquista». Sembra sentire l’eco delle previsioni di Tocqueville sul nuovo tipo di servitù che si instaura quando «dopo aver preso a volta a volta in mano nelle sue mani potenti ogni individuo e averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull’intera società… Esso non spezza la volontà, ma la infiacchisce; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente che si impedisca che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare… snerva ed estingue riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi e industriosi della quale il governo è pastore. Ho sempre creduto che questa specie di serale vitù regolata e tranquilla… possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo».
Se l’Europa chiede oggi a Maastricht di associare alla lotta all’inflazione quella alla disoccupazione, non bisogna
.17.1 dimenticare ciò che Joan Robinson scrisse di Keynes, e cioè che egli «non si rese conto che una volta ammesso il principio della responsabilità pubblica nel garantire l’ occupazione, diventa materia politica anche il problema di quale uso fare dell’occupazione».
Ogni indirizzo, applicato all’Italia o all’Europa, che credesse che nell’economia monetaria di mercato non si possa prevalentemente contare sulla domanda privata, perché troppa o troppo poca e che la si debba quindi sostituire il più possibile con la domanda pubblica che, essendo pianificata, politicamente dà più affidamento e garantisce dagli effetti congiunturali, si scontrerebbe oggi non solo con bilanci pubblici indisponibili ai necessari stanziamenti, ma soprattutto con il giudizio negativo dei mercati internazionali, ormai in grado, a differenza che al tempo di Sturzo, di esprimere quotidiani, inappellabili giudizi.
Ma perché ai cattolici dovrebbe dispiacere che Sturzo fosse considerato un campione della libera impresa alla pari di Maffeo Pantaleoni, di Luigi Einaudi, di Francesco Barone, di Pasquale Jannaccone? Certo, uomini inascoltati e irragionevoli, come li avrebbe definiti J. B. Shaw: per cui l’uomo ragionevole adatta se stesso al mondo, l’irragionevole il mondo a se stesso. Motivo per il quale, concludeva Shaw, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole.

(1) Ardigò A., Classi sociali e sintesi politica, in “Il convegno di San Pellegrino”, 13-15 settembre 1968, pp. 141, 144, 170

Leggi la relazione completa di Achille Ardigò
“Classi sociali e sintesi politica” in “Il convegno di San Pellegrino”, 13-15 settembre 1968

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