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Lo Stato delle imprese

Pubblicato il 11/12/2018 @ 18:09 in Corriere Della Sera,Giornali


di Ferruccio De Bortoli

La nostalgia del pubblico padrone e salvatore (Alitalia, ma anche Enel-Open Fiber)fa il paio con l’incapacità governativa di seguire le catene di valore (taglio degli incentivi 4.0). Ma la piccola industria, unico soggetto di cui i gialloverdi si sentono alfieri, ora si ribella. Teme l’oblio e gli appetiti esteri, che userebbero i nostri guai per comprare a prezzi di saldo

I pregiudizi sono duri a morire. E Cinque Stelle e Lega ne hanno diversi sulle imprese. Nulla di strano. L’impasto residuo della cultura cattolica e comunista del Novecento continua ad alimentare, nella società italiana, sospetti trasversali, diffidenze ataviche. La concorrenza è più temuta che desiderata. La selezione fra le aziende migliori, che creano valore aggiunto, e quelle peggiori, è ritenuta ancora un’ingiustizia del mercato. Da contrastare, se possibile, con l’intervento dello Stato che torna ad essere amorevolmente protettivo. Il proprietario di ultima istanza nella logica sovranista. Mentre per ragioni di bilancio si è costretti, altra contraddizione, a promettere privatizzazioni per cifre irrealizzabili. I grillini ritengono che l’imprenditore, se lasciato libero, ne approfitti sempre. Sia un animale da utili. Non abbia una coscienza sociale in proprio. La Lega ha assunto negli anni l’orgogliosa rappresentanza del mondo artigianale, della piccola e media impresa (che oggi scalpita) ma nutre nei confronti della grande azienda, della multinazionale che delocalizza, quotata all’estero, immersa nella logica della globalizzazione, un timore profondo. A volte quasi un astio. Perdona l’evasione dei piccoli e lancia la crociata un po’ donchisciottesca contro i grandi evasori. I primi votano in massa, i secondi stanno più all’estero.

Le contraddizioni
Gran parte dei distretti industriali del Nord ha ormai un’anima leghista ma vive la contraddizione tra la necessaria apertura (ai mercati) e il desiderio di chiudersi (all’Unione europea e agli immigrati del cui lavoro peraltro ha bisogno). Si coltivano nostalgie bucoliche in contrasto con la dura realtà dei capannoni industriali. «La reazione del governo dopo la tragedia del crollo del ponte Morandi a Genova è stata significativa — spiega Andrea Colli, docente di storia economica alla Bocconi — perché, al di là delle responsabilità che la magistratura dovrà accertare, è emersa un’idea neocorporativa dell’economia. Le concessioni saranno state pur assegnate male ma, nella minaccia di toglierle d’autorità, c’è tutta la convinzione, ripeto neocorporativa, che sia lo Stato a disciplinare capitale e lavoro. Esattamente come negli anni Trenta. Solo il governo sarebbe in grado di capire quali sono le vere necessità dei cittadini e dunque utilizza le imprese per conseguire il bene pubblico. Il mercato è ambiente ostile nella sua dimensione globale. E la grande impresa è trattata come i “pescecani” arricchitisi con i profitti di guerra dopo il primo conflitto. Nemici della patria».

L’intervento dello Stato, in questa logica, non è dunque limitato ai soli fallimenti di mercato, alle attività strategiche per le quali esiste un golden power, una riserva di carattere pubblico. È espressione di una rinnovata politica industriale che possiede e promuove più che regolare e incentivare.

Alitalia è costata finora al contribuente e agli azionisti nove miliardi. Il passeggero paga per ogni biglietto un po’ dello scivolo verso la pensione di migliaia di dipendenti. Se questa logica venisse estesa a tutti, la catastrofe del Paese sarebbe assicurata. E perché il lavoratore che perde il posto in un’azienda metalmeccanica di Pordenone, tanto per fare un esempio, non dovrebbe avere gli stessi diritti di un dipendente Alitalia in esubero? E, ancora: perché i cittadini italiani dovrebbero rischiare di perdere altri soldi con l’intervento delle Ferrovie, pubbliche, nella cosiddetta compagnia di bandiera ormai privata? Si dirà: ma per le banche è stato fatto! Con la giustificazione che la tutela del risparmio è doverosa e nel credito vi è un rischio sistemico. In Monte Paschi lo Stato è entrato con il governo Gentiloni. E lo stesso governo ha utilizzato la Cassa depositi e prestiti (Cdp) per contare di più nella privatizzata Tim. «Ovvero si é schierato — commenta Franco Debenedetti, autore di «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti, l’insana idea della politica industriale» (Marsilio) — a fianco di uno dei due contendenti privati». Vero, ma si potrebbe obiettare che avendo promosso Open Fiber, con Enel e la stessa Cdp, il governo perseguisse l’obiettivo strategico di avere una rete di telecomunicazioni avanzata e in fibra. «La nostalgia di una politica industriale si è basata in diverse stagioni della vita politica italiana — conclude Debenedetti — sull’assunto che tutto quello che non va bene possa avere una soluzione pubblica. Il dividendo per la politica è certo come il costo, purtroppo, per l’ignaro contribuente».

La scelta
Il perdente da salvare oggi è Alitalia. Ma il vincente tra Tim e Open Fiber? Il taglio e la rimodulazione degli incentivi di industria 4.0 rivela poi una scarsa comprensione delle catene del valore nei cicli produttivi. Stupisce questa sottovalutazione da parte della Lega che dovrebbe osservarli da vicino. «L’equivoco di fondo — osserva Fabrizio Guelpa, responsabile dell’Industry and Banking Research di Intesa Sanpaolo — sta nel ritenere che le piccole e medie imprese abbiano tutte un accesso al mercato finale. In realtà, la maggior parte di loro è fornitrice di un gruppo più grande. È stato molto utile il programma Industria 4.0, in tutte le sue articolazioni. Le ha coinvolte in programmi di sviluppo e di ricerca portati avanti da imprese più grandi. Ora è opportuno far crescere le piccole imprese in una catena del valore internazionale. All’interno di un sistema di relazioni, che condivide ricerche e innovazioni, sono in grado di concentrarsi sui prodotti tailor made e incontrare più facilmente la domanda». «Il rapporto tra la grande impresa e la politica — è la riflessione finale di Colli — è sempre stato assai complicato. Una relazione di necessità. Le imprese avevano bisogno di protezione, i governi di posti di lavoro. La politica guardava con sospetto la grande impresa che formava una costituency alternativa e tentava di imporre le sue scelte di potere, mentre le piccole aziende erano considerate una sorta di gregge, incapaci di rendersi autonome e disponibili ad accettare una condizione di vassallaggio rispetto ai partiti». A giudicare dagli ultimi fermenti, anche le piccole si ribellano. I Paesi europei che spingono per il rigore di bilancio hanno gruppi industriali non privi di appetiti sulle aziende italiane, soprattutto le più internazionalizzate. E, in particolare, quelle in cui l’azionista è pubblico. Se lo Stato fosse costretto a metterle sul mercato certamente non spunterebbe prezzi favorevoli. I buoni affari si fanno anche sulle disavventure dei Paesi più deboli e indebitati. Se poi questi hanno governi con le idee confuse, meglio ancora.

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