Lo spettro di un IRI 2

settembre 16, 2004


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Che sia uno stratagemma, non lo nega nessuno: ma verso chi è messo in opera?

Che sia uno stratagemma, non lo nega nessuno: ma verso chi è messo in opera? Fu uno stratagemma virtuoso per restare tra i paesi virtuosi, quello messo in atto da Giulio Tremonti a fine 2003: vendere alla Cassa Depositi e Prestiti il 10% di ENI ed Enel e il 35% di Poste Italiane, per sfruttare le regole europee che consentono di portare il ricavato a riduzione del deficit. Oggi, il nuovo DPEF prevede imponenti privatizzazioni, e, dato che il tempo stringe, forte è la tentazione di ripetere l’operazione in grande stile: vendere alla Cassa tutte le partecipazioni industriali ancora in mano al Ministero dell’Economia.

Ci sono buone ragioni per temere che lo stratagemma contabile usato verso Bruxelles del 2003, diventi nel 2004 uno stratagemma istituzionale, rivolto contro quanto in questi anni è stato fatto per por fine alla presenza diretta dello stato in imprese economiche. Appare lo spettro di una nuova IRI. Con una variante importante rispetto alla vecchia: che qui, per ottenere l’OK da Bruxelles, si son dovute fare entrare nel capitale le Fondazioni di origine bancaria, soggetti che la legge aveva dichiarato di diritto privato a patto che cedessero le partecipazioni in banche (e ci si chiede con quale coerenza abbiano potuto acquistare una partecipazione in una banca quale la Cassa Depositi e Prestiti).
C’è quindi una differenza profonda tra i due stratagemmi, quello del 2003 e quello di cui oggi si parla. L’operazione del 2004 equivale al riconoscimento che, dopo le grandi privatizzazioni dei governi dell’Ulivo, e quella dell’Ente Tabacchi dell’attuale governo, il processo di privatizzazioni si è di fatto incagliato. In Italia, si sostiene, non esistono soggetti nelle cui mani lasciare saldamente il controllo di aziende strategiche; se le si lascia alle forze del mercato, finiscono in mano straniera; dunque le si metta “per adesso” nella CDP. A forza di ripeterlo, è diventato un assioma, che esime da doverlo dimostrare coi numeri, come si dovrebbe fare quando si parla di fatti economici. Ed è dunque da qui, dall’analisi critica di questo assioma che si deve partire.

L’assioma contiene una falsità e due non-verità, o verità solo presunte. La falsità è il “per adesso”: perché il dilemma tra vendere e ottenere garanzie non è di quelli che si risolvono con il passare del tempo. Se non si dice quale evento gli pone fine, il “per adesso” equivale a “a tempo indeterminato”, e svanisce nel “per sempre”.

Le due non- verità riguardano l’una l’oggetto che dovrebbe essere venduto, l’altra le garanzie che l’acquirente dovrebbe prestare. E’ una presunzione che l’oggetto da vendere sia la quota azionaria ancora pubblica: al contrario, questa è solo una delle opzioni. Se non si trova l’acquirente adatto, è il bene che potrebbe essere non adatto ad essere venduto nel nostro mercato. Prendiamo il caso dell’Enel: invece di vendere quote della società si possono vendere le centrali. (Le Genco erano un’altra cosa, dovevano servire a creare un mercato elettrico e a evitare di creare problemi di esuberi all’Enel). A parità di tecnologia, il kwh prodotto dai concorrenti di Enel non costa certo più caro né a chi lo produce né, a maggior ragione per effetto della maggiore concorrenza, a chi lo compera. Non si vede quali inconvenienti ci sarebbero a vendere gli asset di Enel anziché le azioni. Perché così scompare una grande azienda? ma si dice sempre che la priorità è ridurre il costo dell’energia. Perché così scompare un soggetto capace di grandi investimenti? Enel ha fatto un investimento in Wind ( e ne faremo il conto finale quando sarà stata venduta), ci ha provato con l’Acquedotto Pugliese: entrambi erano finalizzati ad evitare la privatizzazione.
L’esempio può essere generalizzato: se davvero si vuole vendere a soggetti italiani – a quelli che ci sono- si devono offrire beni che siano da loro appetibili. Dire che, siccome non ci sono gli imprenditori che si desiderano, il solo proprietario possibile è lo stato, è luciferina presunzione e palese contraddizione, perché istituzionalizza e perpetua una situazione al cui cambiamento si dedicano convegni e saggi.

La seconda non-verità riguarda le garanzie che si chiedono all’acquirente. Presunte, perché mai precisate. Supponiamo che siano: garanzia che il controllo resti in mani italiane, e perseguimento di un interesse pubblico. A discutere della prima può servire il caso ENI; della seconda, la rete di distribuzione elettrica Terna.
Sotto la pressione competitiva, per cercare efficienza, l’industria petrolifera mondiale si è fortemente concentrata. E’ per lucrare in efficienza che l’ENI, se lo Stato ne perdesse il controllo, verrebbe acquisita e incorporata in una società maggiore. Questa mancata efficienza è un costo per lo Stato, dunque per i cittadini (oltre che un mancato guadagno per gli azionisti). A fronte di che cosa? Gli argomenti retorici sono molti, le cifre poche. Si dice che l’ENI serve agli interessi geopolitici dell’Italia: ma non risulta ci sia neppure una sede formale in cui lo Stato esercita il potere di indirizzo sulle strategie della società; è più verosimile che ci siano sedi informali in cui avviene il contrario. Non si vede che cosa abbiamo perso dal fatto che Nuovo Pignone è della General Electric, Buitoni della Nestlè, o che la casa madre della IBM Italia è in USA. Al contrario, gli investimenti esteri sono un formidabile contributo di tecnologie e di innovazione: si pensi a che cosa hanno significato le fabbriche americane della Toyota per la modernizzazione dell’industria auto USA.
Che Terna debba restare sotto il controllo pubblico è opinione comune, ma non criticamente esaminata. Il bene pubblico che si chiede di assicurare consiste in: rete fisica, sistemi di controllo e monitoraggio, automatismi anti black-out ecc, tecnicamente adeguati; prezzi convenienti; rapidi allacciamenti per chi importa energia o per chi costruisce nuove centrali. Tutte cose che é persino più facile assicurare se la proprietà è privata (una volta che si sia escluso chi sarebbe in conflitto di interesse in quanto produce, importa o commercializza energia). I prezzi sono comunque amministrati, il livelli qualitativi fissati, verificati e, se inadeguati, sanzionati dall’Autorità; lo stato esercita il suo potere con molta più forza verso un soggetto terzo che verso se stesso Nel superare gli ostacoli, in sede locale, all’ampliamento della rete, è dubbio che lo Stato sia più efficiente di un privato mosso dall’interesse di aumentare il proprio fatturato. La contrapposizione di interessi è lo strumento più efficace contro la collusione con le imprese di generazione.

All’epoca delle grandi privatizzazioni, il Tesoro considerava quelle nelle aziende pubbliche come partecipazioni puramente finanziarie: una strategia che, col passare degli anni, ha posto difficili problemi di corporate governance. Con il passaggio delle azioni alla Cassa Depositi e Prestiti, questi problemi anziché risolversi, aumentano. Avendo venduto il 30% della Cassa alle Fondazioni di origine bancarie, lo Stato ha creato la sua “scatola cinese”, e introdotto opacità nella reale catena di controllo. E potrebbe essere solo l’inizio: si pensi alle complicazioni (e ai conflitti) che possono sorgere se dovesse realizzarsi il progetto, di cui si è parlato all’Assemblea dell’ABI, di un’iniziativa comune tra Cassa e sistema bancario per il project financing.

Il caminetto di Albert Einstein a Princeton, recava scritto: “Raffiniert ist der Herrgott, aber boshaft ist er nicht” (Astuto è il Signore, ma non maligno). Negli uomini invece l’astuzia corre sempre il rischio di degenerare. Certi stratagemmi, meglio lasciarli perdere.

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