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Liti diplomatiche e negoziati senzafine non aiutano la Cee

Pubblicato il 01/11/1993 @ 16:44 in Varie


«La stangata: come i governi comprano i voti con i soldi dei consumatori». E il titolo non di un articolo di un giornale dell’opposizione estrema, ma di un documento ufficiale firmato da Peter Sutherland, segretario generale del Gatt, e diffuso alla fine di agosto.

Sette paginette destinate a dimostrare come, dietro le schermaglie diplomatiche degli eterni negoziati dell’Uruguay Round, stiano problemi che riguardano non gli equilibri planetari, l’industrializzazione del terzo mondo, o il costo delle medicine in Africa, ma, forse più egoisticamente ma certo più realisticamente, la borsa della spesa di europei ed americani. Gli scambi internazionali della quasi totalità dei beni, agricoli ed industriali, sono soggetti ad una quantità di politiche protettive: che si esprimono con l’imposizione di dazi, di restrizioni quantitative, di limitazioni volontarie, di sussidi, di norme antidumping, di barriere non tariffarie: anche le norme per la sicurezza, la qualità, la protezione ambientale sovente vengono imposte per proteggere i produttori nazionali. L’Uruguay Round è un complesso negoziato multilaterale tra 110 nazioni che si propone di eliminare la massima parte di queste limitazioni: le negoziazioni si trascinano da 7 anni, e a dicembre ci dovrebbe essere lo scontro o, sperabilmente, l’accordo conclusivo. I dati citati da Sutherland sono sorprendenti: ogni europeo paga 450 dollari di sussidi all’agricoltura; solo per lo zucchero ogni famiglia europea paga 60.000 lire all’anno di più. Un giapponese paga il riso cinque volte il prezzo degli americani. Per i vestiti una famiglia europea paga 200.000 lire l’anno, una americana 600.000 l’anno di più. E il discorso potrebbe continuare per succhi di frutta e televisori, per gelati e per automobili. Altro che tassa per il medico: siamo soggetti ad imposte invisibili, non solo assai superiori ma per di più regressive: infatti le tariffe riguardano maggiormente i prodotti essenziali, che pesano di più nel bilancio delle famiglie meno abbienti; le limitazioni quantitative (le quote) inducono ad esportare di più i prodotti più costosi ed a limitare la concorrenza in quelli di più basso prezzo. Il rapporto tra i redditi di due famiglie appartenenti alle due fasce estreme sono, secondo uno studio canadese, in rapporto di 1 a 6: ma, quanto ad oneri per dazi e tariffe, la famiglia più ricca paga solo il doppio di quella più povera. Nelle nazioni sviluppate la ragione ,principale con cui vengono sostenute politiche protezioniste è il mantenimento dei posti di lavoro. Ma Sutherland si dilunga a dimostrare che normalmente il costo sopportato dalla comunità per salvare un posto, di lavoro con dazi è superiore al salario relativo. Questo costo è, in Europa per un contadino di 20 milioni l’anno: ma diventa di 60 milioni per salvare il posto di lavoro di un operaio nel settore tessile, e di oltre 600 in quello della televisione a colori! Senza contare che i soldi per tenere in piedi attività non produttive potrebbero essere impiegati per riaddestrare il personale, o per facilitarne la mobilità.
Quello che il trattato prevede non è la brutale applicazione di politiche liberoscambiste, che anche sul piano della teoria economica hanno fatto il loro tempo, ma piuttosto un complesso insieme di accordi ad applicazione progressiva, una delicatissima architettura di compromessi reciproci, non senza ambiguità e riserve mentali. Scongiurato all’ultima riunione del G7 lo scontro UsaGiappone sui prodotti industriali, raggiunto un accordo alla Blair House tra Comunità Europea e Usa sulle produzioni agricole, è la Francia ad opporre l’ultimo ostacolo. La Francia è
il secondo esportatore mondiale di prodotti agricoli, dopo gli Stati Uniti; avendo quadruplicato la sua produttività in quarant’anni, oggi solo il 5 per cento della popolazione vive nelle campagne. Basta il timore di una minoranza, seppure abituata a far sentire la propria voce bloccando le strade con i trattori, per giustificare la guerra della Francia contro il mondo? Dal 1950 si sono persi in Francia 4 milioni di posti di lavoro in agricoltura: è un dramma se se ne perderanno gradualmente ancora qualche centinaio di migliaia?
Giocano certo fatti culturali di identità nazionale: come nel Giappone industrializzato il viaggio in campagna ha un valore quasi rituale, di fedeltà alle proprie radici, così la Francia illuminista si considera un paese agricolo, forse perché un gran numero di francesi che oggi vivono nelle città sono nati in campagna.
In realtà il problema è la spia della debolezza dell’Europa dopo il collasso dello Sme. La promessa fatta da Kohl a Balladur durante la sua ultima visita a Bonn, di avere riguardo alle esigenze francesi di politica agricola, sono state interpretate come il contrappeso alla consueta imperturbabilità della Bundesbank, che non ha ritenuto di far coincidere la visita con l’attesa riduzione dei tassi. «Per i francesi, i contadini che si sentono minacciati dal Gatt sono quello che per i tedeschi è il marco, minacciato da Maastricht», scrive l’Economist. In una Francia che non si sente più il perno della Comunità Europea, non più il garante dell’ancoraggio all’Europa di una Germania divisa, ogni concessione in tema di politica agricola avrebbe significati ed implicazioni ben aldilà della loro reale portata economica. La convergenza di Maastricht sembra diventare più un feticcio che un obiettivo; la Bosnia ha dimostrato quanto sia difficile raggiungere l’unità in politica estera; si dovrà cedere su frumento e vitelli per conservare quel poco che resta di Europa?

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