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L’inarrestabile marcia del fisco

Pubblicato il 05/11/1997 @ 11:21 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Il nervosismo dei mercati finanziari, con le sue reazioni a catena dall’Asia a Wall Street passando per l’Europa, ha occupato in questi giorni titoli e pagine di giornali, facendo passare in secondo piano le riforme fiscali di Visco, che stanno proseguendo il proprio iter in Parlamento. Così è la natura umana: colpita dalle clamorose discontinuità, non coglie i mutamenti lenti. Parliamo, come si sara’ capito, del costante aumento della pressione fiscale.

“Il Sole 24 Ore del lunedì” del 20 Ottobre ha pubblicato tabelle impressionanti. Parliamo di aliquote: in un quarto di secolo l’aliquota con cui e’ colpito un reddito ( a parita’ di potere d’acquisto) di 92 Mio attuali e’ aumentata del 61%; quella di un reddito attuale di 230 Mio si e’ quasi raddoppiata. Parliamo di prelievi: in 25 anni chi nel 1975 guadagnava 3 milioni l’anno ha visto aumentare il suo reddito in termini reali del 46%, ma quasi tutto l’incremento reale se lo e’ mangiato la sola Irpef.
Ne’ si tratta di un fatto solo italiano, retaggio del nostro passato dissoluto. La Commissione Europea riportava lo scorso mese che le tasse nel 1996 hanno toccato un livello record: i Governi si prendono il 42,4% del prodotto nazionale, paragonato al 41,7% di appena un anno prima, e al 38,7% nel 1980.
A Maastricht si e’ stabilito l’ammontare massimo del ricorso all’indebitamento, ma non si e’ purtroppo detto a quale livello di prelievo fiscale questo si debba conseguire il famoso 3%. E c’e’ perfino il rischio che la progettata armonizzazione fiscale, necessaria per eliminare alcune evidenti discriminazioni, induca i Governi a giustificarsi l’un l’altro, e spinga a un allineamento dei prelievi verso l’alto.
Neppure gli USA ed il Giappone, con minori prelievi fiscali, rispettivamente del 33% e del 36%, sfuggono alla regola: la pressione fiscale aumenta sempre. All’inizio del secolo era ovunque meno di un decimo del PIL, l’anno scorso vicino al 50%. Anno dopo anno aumenta la quantita’ di risorse che i Governi prelevano dall’economia dei loro Paesi. Lo Stato cresce negli anni delle vacche magre, perche’ deve provvedere alle necessita’; cresce, e ancora piu’ in fretta, in quello delle vacche grasse perche’ vuole soddisfare le ambizioni. Perfino in Inghilterra 20 anni di politica coerente e rigorosa, di tagli impietosi, di smantellamento del potere sindacale, son riusciti a diminuire la spesa pubblica solamente dal 43 al 42%.

Oggi tutti si dicono liberisti, e la parola inflazionata puo’ risultare ambigua. Meglio affidarsi ai numeri, anzi ad un numero solo: la spesa pubblica. La sua riduzione, o anche solo suo contenimento agli attuali livelli assoluti, e’ la vera pietra di paragone, il faro su cui tenere la rotta. Ogni giorno c’e’ il rischio di deviare: l’altro ieri erano i lavori socialmente utili, ieri le 35 ore, domani le pensioni. Nella logica del quotidiano, si giustifica ogni mediazione: ma ogni compromesso si traduce in un aumento della spesa pubblica.
Contrastare la lunga deriva di questa espropriazione di liberta’ individuale e d’impresa e’ la sfida piu’ impegnativa per i sinceri liberali che vivono e operano nei Paesi dove il fenomeno ha assunto connotazioni “epocali”: quelli dell’Europa continentale, la futura area dell’Euro. Nessuno puo’ candidarsi ad abbassare in pochi anni la pressione fiscale di 4-5 punti del PIL: Kohl si proponeva molto meno con i suoi sgravi per 30 miliardi di marchi, ed e’ stato bloccato. E’ stato fermato per lo stesso motivo per cui a Visco si chiede gettito aggiuntivo per fronteggiare una spesa pubblica corrente che continua a crescere del 5-6% pur in anni di conclamato risanamento.
Un obiettivo di questa portata non puo’ essere conseguito con le rituali schermaglie della settimana successiva alla presentazione dei provvedimenti da parte del ministro delle Finanze pro tempore. Solo una coalizione di forze che lo ponga con forza e determinazione al centro del proprio programma, e su di esso richieda una delega elettorale, puo’ sperare di fermare prima e invertire poi la crescita del prelievo, e a farlo senza che aumentino deficit e inflazione.
Perche’ questo avvenga la condizione non e’ quella di una dichiarazione ex ante dei “vincitori” e dei “perdenti” della nuova curva del prelievo. In un sistema politico come il nostro, il velo d’ignoranza costituisce, sui temi fiscali, un potente freno alla mobilitazione degli individui, incerti fino all’ultimo sulla convenienza di non esporsi troppo. Quel che deve essere chiaro e’ che quando il prelievo tende al 50% del PIL, non occorre piu’ modificare la redistribuzione per cui la fiscalita’ moderna si giustifica; l’obiettivo puo’ essere benissimo neutrale in termini redistributivi, in altre parole che ci siano vantaggi -sgravi- per tutti e per ciascuno.
Intransigenza dell’obiettivo e neutralita’ redistributiva possono convivere, e costituire il binomio delle riforme fiscali del prossimo secolo. Esattamente l’opposto della gradualita’ e del premio distributivo che ci ha portato a questo limite.

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