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L’impresa improbabile

Pubblicato il 15/04/2023 @ 10:51 in Giornali,Il Foglio


Adriano Olivetti (1901-1960)
Una storia tra mito e realtà

“Può l’industria darsi dei fini?” E’ Adriano Olivetti a porre le domanda: è il 24 aprile 1955, sta inaugurando lo stabilimento di Pozzuoli, parla ai dipendenti. “Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?… Non vi è qualcosa aldilà del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”. Quanto ai profitti, ci sarebbero voluti ancora alcuni anni prima che Milton Friedman scrivesse esserci una e una sola responsabilità dell’impresa: accrescere il valore a lungo termine degli azionisti. Semplicemente.

Quanto ai profitti, Adriano Olivetti non accettò mai l’idea che il farne fosse l’etica dell’impresa. Quanto alla destinazione, anzi alla vocazione, c’è già tutto il problema del ruolo della fabbrica nella società: un tema a cui è dedicata la maggior parte del lavoro teorico di Adriano, testimoniato da una enorme elaborazione concettuale.

C’è tutta la storia di Adriano imprenditore in quei due interrogativi. E lo iato che si riscontra tra mito e realtà, ha che fare proprio con la natura dell’impresa e dei suoi “fini”. Risulta evidente da “Adriano Olivetti, un italiano del Novecento”, la biografia che ne fa Paolo Bricco con penetrante analisi (e a cui attingo fino al saccheggio).

Adriano imprenditore

La vita di Adriano imprenditore si articola in tre fasi. L’ingresso nell’azienda fondata da suo padre Camillo, che iniziò a fare macchine per scrivere nel 1908, coincide con il primo viaggio in America, e il suo primo lavoro consiste nell’elaborare il rapporto tra produttività e remunerazione, tra fabbrica e società. La seconda è modellata dall’“impatto fortissimo prodotto nella vicenda industriale dell’impresa dalla nascita, a Ivrea, di Natale Capellaro: […] il progresso della Olivetti negli ultimi cinque-sette anni è dovuto per il trenta, anzi quaranta per cento a quest’uomo. Può anche darsi che senza di lui si sarebbero fatte altre cose, avremmo sviluppato l’elettronica invece che le macchine per scrivere. Però sta di fatto che è andata così”. Così, voleva dire la Divisumma 24, prodotta con un primo costo variabile di 20.000 lire e venduta al prezzo di un’utilitaria. Fu Adriano a selezionare Mario Tchou, che insieme al figlio Roberto sviluppò l’elettronica: avrebbe dovuto essere la terza fase della sua carriera di imprenditore. E invece morì prima: investimenti sconsiderati e “un modello imprenditoriale in cui gli azionisti cercano in tutti i modi di ottenere vantaggi dall’azienda di cui sono proprietari” (come dirà Roberto) avevano condotto Olivetti sull’orlo del fallimento. L’elettronica, per Valletta “un neo da estirpare”, fu venduta a General Electric. E invece fu una fortuna: se in Europa a far calcolatori non ci riuscì nessuno, non la Bull, non la Siemens, non la Philips, non l’Icl che pure aveva alle spalle i successi di Enigma, una ragione c’è: mancava la domanda del governo Usa, del Census Bureau, soprattutto quella, inesauribile, del dipartimento della Difesa.

Corporativismo e rapporto con il regime

Tornato dal suo primo viaggio in America, Adriano vuole introdurre il cottimo, cioè un metodo di misurazione oggettivo dei tempi di lavorazione. Legare remunerazione e produttività con possibilità di un controllo sindacale, scrive Adriano sull’Ordine corporativo del luglio 1935, produce efficienza di lavoro in un’atmosfera di assoluta tranquillità morale. Occorre che “le discussioni teoriche siano ricondotte alla sede naturale dell’attuazione pratica e dimostrare la possibilità tecnica di soluzioni corporative”. II pensiero di Adriano è organico al corporativismo, e questo, scrive Bricco, lo porta ad avere un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. Adriano gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione (la Littoria della concorrente Invicta verrà fatta uscire dal mercato); vuole inserire la fabbrica all’interno della visione fascista dell’industria, che a sua volta assorbe e rimodula le istanze del fordismo e del taylorismo, dell’organizzazione scientifica del lavoro e della fabbrica quale perno della modernità.

La sua visione corporativista dell’economia lo avvicinerà al regime. Vuole essere ricevuto da Mussolini, per presentargli il suo progetto di città corporativa, “inteso a realizzare nella città industriale la politica sociale del regime”. Verani garantisce per lui: “L’ing. Adriano Olivetti – scrive al Duce – è fascista per convinzione e non per opportunismo; è un tuo ammiratore tanto sincero quanto disinteressato, credo non vi sia altro grande industriale così entusiasticamente corporativista come lui.”

Ma quando su Critica fascista il 15 dicembre 1938 compare l’editoriale “Corporativismo senza ebrei” è chiaro che tutto è cambiato. “Il problema è la sopravvivenza sociale, il destino dell’impresa, la paura dei singoli: prima di tutto c’è un tema di identità, che va negata in ogni modo e va sostenuta in ogni forma: gli Olivetti non sono ebrei, e la Olivetti non è un’impresa ebraica”. Quello che scrive Adriano nel 1935 sull’articolazione tra vita privata e vita pubblica, tra fabbrica e tempo libero, sembra anticipare quello che, a fascismo caduto e democrazia instaurata, si realizzerà a Ivrea nel secondo dopoguerra, e che vedrà Adriano costruire un’idea di città in cui l’estetica e la bellezza, incominciando dagli edifici, annullino le distanze sociali. Nel quartiere di Ivrea che fa progettare a Figini e Pollini esiste, scrive Adriano, un’armonica integrazione con i cardini della vita pubblica e privata dell’Italia fascista, Casa del Fascio, istituzioni del regime, biblioteche, scuole ecc.

Architettura, pubblicità, relazione con i lavoratori

“Nel terreno tecnoestetico della Olivetti, scrive Bricco, cade un seme destinato a dar vita a una delle radici della cultura di impresa, del senso delle cose e della bellezza della Olivetti: il Bauhaus”. Sorto nel 1919 per iniziativa di Walter Gropius, il Bauhaus nel 1933 cadde nel mirino di Alfred Rosenberg, delegato di Hitler per la cultura. In aprile Rosenberg manda la Gestapo a circondare la scuola che nel frattempo si era spostata da Weimar a Berlino. Ludwig Mies van der Rohe, direttore della scuola, ne dichiara la chiusura: inizia così la diaspora degli esponenti del Bauhaus. Con un tragitto particolare che dalla Germania nazista conduce all’Italia fascista, nel 1934 arriva alla Olivetti di Milano Xanti Schawinsky, allievo di Gropius.

Dal ‘34 inizia l’ampliamento della fabbrica di Ivrea affidato a Figini e Pollini, che faranno i due successivi ampliamenti, per completare a metà anni Cinquanta il fronte vetrato della ICO in via Jervis. Che si tratti di fabbriche, di palazzi di uffici, di centri ricerca, in Italia o in Giappone, ovunque resta la testimonianza di un rapporto speciale dell’Olivetti di Adriano con l’architettura. Oggi Ivrea è un museo all’aperto, nella Fifth Avenue a New York o in piazza San Marco a Venezia, nascono capolavori da storia dell’arte. Sono di architetti, Marcello Nizzoli, Mario Bellini, Ettore Sottsass, Michele De Lucchi, i design delle macchine e dei mobili Olivetti.

E’ grazie a una connessione con il Bauhaus se “l’estetica olivettiana nasce chiara e limpida, luminosa e aperta”. Quando, nel 1931, emerge la pubblicità come tema aziendale, sarà Schawinsky a disegnare la formula grafica per il nome Olivetti, Herbert Bayer il manifesto della Divisumma. Lucio Fontana realizza, per il lancio della Studio 42, una donna di colore azzurro e oro in cui una macchina per scrivere si libra a mezz’aria.

Lo stile e la comunicazione dell’azienda si definiscono da un lato attraverso la pubblicità, dall’altro attraverso la relazione con i lavoratori. A metà degli anni Trenta, l’Olivetti incomincia a occuparsi dell’assistenza sanitaria e per la maternità, della formazione professionale e dei trasporti per i dipendenti. Nel 1934 viene istituita l’infermeria interna, nel 1936 la mensa, nel 1937 il trasporto a prezzi simbolici da e verso i piccoli centri del circondario per evitare una crescita esasperata di Ivrea, nel 1939 le borse di studio. All’Olivetti si può leggere, ci si può ammalare, si può essere una mamma che lavora, si può allattare il bimbo all’asilo nido. E se manca un posto, tra figlio dell’operaio e figlio dell’impiegato, si dà la preferenza al primo. Si deve peraltro riconoscere che in quegli anni le aziende di maggiore dimensione e lungimiranza avevano acquisito la piena funzionalità dei servizi sociali nell’organismo dell’impresa: esemplare la mutua Fiat.

Adriano Olivetti è, per molti, un modello insuperato. Nella funzionalità degli spazi in cui lavorare, nella eleganza degli edifici in cui mostrarsi, nel design dei prodotti, nelle provvidenze per i lavoratori, sembra che né allora né oggi ci sia qualcuno che gli stia alla pari come ampiezza di visione e generosità di esecuzione. Ma è proprio vero? Lo stabilimento del Lingotto venne costruito nel 1920, un’arditezza architettonica ammirata ancora oggi. Quello di Mirafiori è del 1936. Costruzioni perfette per funzionalità ed ergonomia diventano uno standard imprescindibile. Nel 1935 Adriano chiama alcuni degli esponenti più brillanti dell’architettura italiana a costruire la stazione sciistica di Pila; qualche anno prima il senatore Agnelli aveva dato a Bonadè Bottino il compito di costruire Sestrière. Negli anni Trenta Annibale Fiocchi costruiva soggiorni estivi per l’Olivetti di Camillo: già nel 1923 la Fiat aveva costruito a Marina di Massa la torre per le vacanze estive dei figli dei dipendenti. Vent’anni più tardi Enrico Mattei costruirà a Borca di Cadore un suggestivo centro vacanze.

Tra il 1931 e il 1935 Marcello Dudovich fa le grafiche per la comunicazione aziendale dell’Olivetti di Adriano; dal 1929 Fortunato Depero l’aveva fatto per la Campari. E’ lo spirito del tempo: Hayez ispira i Baci Perugina, Boccioni fa cartelloni e D’Annunzio dà il nome alla Rinascente. Sono più di 500 gli oggetti disegnati e prodotti da Gio Ponti tra il 1938 e il 1943 che oggi vengono esibiti in una mostra a Padova.

L’estetica, dal disegno industriale, alle architetture industriali, alla pubblicità, è la norma del capitalismo del Novecento. L’eccezionalità del rapporto di committenza di Adriano consiste in un rapporto non puramente professionale dove “la dimensione aziendale è intrecciata con una dimensione culturale e civile che nell’Italia del tempo è minoranza. I tecnici della forma chiamati a operare in Olivetti adattano la loro fisionomia intellettuale e professionale alle indicazioni dell’azienda”.

Già negli anni Trenta Milano era un concentrato di energia europea. Tra il 1945 e il 1960 trova piena espressione “il ‘codice adrianeo’ della fabbrica e della bellezza, dell’umanesimo e della ricerca del funzionamento perfetto della meccanica dell’economia e della società”. Di questo universo sono parte gli intellettuali, condizionati e plasmati dalla sua figura. “Ahi questi intellettuali – dirà Carlo Emilio Gadda – vogliono la coscienza inquieta e lo stipendio della Olivetti”.

Adriano ne ha bisogno per realizzare le sue idee. “Nella tradizione italiana, fin dalle corti rinascimentali, hanno funzione di adesione e di servizio al potere: sono fondamentali nella costruzione del suo polimorfico e polisemico mondo. La committenza della corte rinascimentale evolve nella funzionalità economica dell’impresa. Gli intellettuali sono scrittori e letterati, architetti e designer”. Gestita nel silenzio e nella riservatezza di medici e psicologi, osservata da lontano da Cesare Musatti e guidata da Francesco Novara, in Olivetti si fonda la psicologia di fabbrica. Ivrea poteva ben credersi la moderna Atene periclea, la nuova montefeltresca Urbino: di Urbino era Paolo Volponi, arrivato a Ivrea a occuparsi, come direttore dei servizi sociali, di asili, di assistenza sanitaria, di colonie estive, della mensa aziendale. In quegli anni si accentuano tendenze che erano presenti in Adriano da anni: il rapporto con la psicoanalisi, Cesare Musatti, Luciana Nissim, Ernst Bernhard, l’allievo di Carl Jung; ma anche quello con la teosofia e l’esoterismo di Rudolf Steiner; l’indagine della natura degli uomini, con la grafologia praticata durante i colloqui aziendali; l’astrologia a cui ricorre nella vita quotidiana, l’I Ching, il libro dei mutamenti, che consulta regolarmente.

Verso il dissesto

L’ampliamento della capacità manifatturiera e delle funzioni impiegatizie, fisiologia dell’Olivetti adrianea, è anche una delle cause del dissesto in arrivo. In un’azienda ormai troppo espansa esplodono gli investimenti contemporanei per la grande elettronica e per l’acquisto della Underwood negli Stati Uniti; si evidenzia lo squilibrio strutturale tra finanza di impresa e interessi degli azionisti.

L’Olivetti di Adriano è un’industria metalmeccanica, ma “esiste una ragione fondamentale di sicurezza che ci consiglia di non lasciarci cogliere impreparati quando le tecnica permetterà di trasformare i nostri prodotti da meccanici in elettronici”. Sono passati pochi anni da quando Adriano ricordava “l’impatto fortissimo prodotto dalla nascita a Ivrea di Natale Capellaro”, certo “senza di lui si sarebbero fatte altre cose”, a patto che queste dessero i margini della Divisumma. Fabbriche, uffici, negozi, provvidenze sociali, tutto stava in piedi grazie alla nascita a Ivrea di “uno dei più geniali interpreti della capacità combinatoria e delle forze tecnomanifatturiere della meccanica italiana e internazionale del Novecento”. In Italia la forza dirompente dell’elettronica non viene colta dalle élite politiche economiche e culturali del tempo, che privilegiano l’auto, la chimica, la meccanica.

Adriano muore su un treno in Svizzera il 27 febbraio 1960; Mario Tchou, il padre dell’elettronica Olivetti, muore in un incidente stradale il 9 novembre 1961. A 58 anni Adriano è un uomo deluso. Ha costruito in Italia una rete di associazioni, circoli, centri culturali che fanno parte del Movimento di Comunità, organizzate con meccanismi che già annunciano la forma partito. Norberto Bobbio è tranchant: “Temo che il movimento, non volendo diventare un partito demagogico, finisca per diventare una setta aristocratica di intellettuali iniziati. E non so quale dei due sia meglio”. Alle elezioni del 1958 il Movimento si presenta alleato con il Partito dei contadini d’Italia e con il Partito sardo d’azione. Adriano sarà l’unico eletto: il 20 ottobre 1959 si dimetterà.

In famiglia, tra gli azionisti, il clima è plumbeo, Adriano avverte che vorrebbero silurarlo, come già undici anni prima: nel 1947 le tensioni erano state alleviate con un patto di sindacato di famiglia. Nel 1958 le elezioni politiche sono un fallimento. Adriano si infligge un danno patrimoniale persistente, non meno di un miliardo di lire dal 1948 al 1960, tutto dalle sue finanze personali, i famigliari non consentono che finanzi le sue attività con i fondi dell’impresa. “L’assillo del denaro, il dolore per la sconfitta del 1958 e il senso di distacco crescente dal resto della famiglia, che spesso lo guarda e non capisce e che non ha nessuna intenzione di pagare conti non suoi, rendono amaro l’ultimo pezzo della sua vita”. Pensa anche lui a una costituenda Fondazione Camillo Olivetti a cui conferire un pacchetto di azioni in modo che il controllo sia di lavoratori e di enti pubblici. “La più radicale tensione con i famigliari riguarda la natura dell’impresa e di chi ne è proprietario, l’incrociarsi delle linee di proprietà con le linee di gestione, cioè come la si guida”. Eppure il sottostante concreto è “l’espansione e la traiettoria dell’impresa che egli ha sviluppato e guidato. Non ci fosse stata la crescita, le idee e gli impulsi sarebbero quelli di un intellettuale: invece Adrano è un industriale”. La Divisumma 24, con un margine operativo lordo dell’84 per cento, aveva fatto dell’Olivetti una macchina per far soldi: almeno tra il 1948 e il 1958, ma tra il 1958 e 1959 il meccanismo si inceppa. L’impresa avrebbe bisogno di capitali e invece gli azionisti estraggono più soldi di quanti ne mettano. Il 1955 è lo spartiacque: nuove fabbriche, nuove linee produttive, nuovi servizi sociali, nuove consociate estere: ma la crescita è tutta finanziata in debito.

Nel 1959, si aggiungerà una scelta strategica che ingrosserà “le radici della crisi fino a farle esplodere quando Adriano non ci sarà più”: l’acquisto della Underwood. Operazione pessima, pessimamente condotta: l’Olivetti immetterà in Underwood non meno di cento milioni di dollari. A novembre Adriano non si opporrà più alla quotazione di Olivetti: la contemporaneità dei fabbisogni per l’espansione in Nord America e per lo sviluppo della grande elettronica rendono indispensabile adeguare il capitale: sarà mediante l’emissione di azioni privilegiate, per consentire agli Olivetti di mantenere il controllo. Rimane l’opacità nella ripartizione fra gli interessi degli azionisti e l’interesse dell’azienda. “Le radici della crisi sono anche nel fallimento della vita pubblica di Adriano che ha comportato il depauperamento delle sue finanze private e lo sbandamento dei famigliari. La debolezza di Adriano è la debolezza dell’Olivetti”.

Fare profitti

Davvero dunque “imprenditore adrianeo” sarebbe il modello inarrivabile delle “gran virtù dei cavalieri (del lavoro) antiqui”? Suo padre Camillo era stato anche inventore. E inventore fu Natale Capellaro, il progettista della calcolatrice MC-24. Inventore l’ingegner Mario Tchou, che costruì il primo calcolatore a transistor. Adriano seppe scegliere gli uomini, e con Giuseppe Pero e Giovanni Enriques organizzò un’industria efficientissima nel produrre e vendere macchine per scrivere e da calcolo in tutto il mondo, con margini eccezionali, raramente riscontrati per prodotti industriali.

Eppure l’azienda collassò, e Mediobanca dovette organizzare il gruppo di intervento che la salvò dal fallimento. Accadde pochi anni dopo la sua morte, ma non a causa di questa; e neppure delle raffinate architetture, né dell’eleganza dei prodotti disegnati da geniali architetti, né dei generosi servizi sociali, né degli stipendi superiori alla media pagati ai dipendenti, né degli intellettuali che aveva alla sua corte. E neppure della politica, una carta che, come il padre, seppe giocare vantaggiosamente; sfruttò la spontanea sintonia con il regime nella visione corporativa della società per salvare azionisti e società dalle persecuzioni antiebraiche. Neppure Comunità sarebbe stata fatale se ci fosse stato un minimo di corporate governance: l’Olivetti era un’azienda familiare, da cui tutti i membri della famiglia attingevano a piacere.

L’Olivetti che, oltre all’espansione in tutto il mondo, acquistava la maggiore fabbrica americana di macchine per scrivere, e affrontava i costi per introdurre i calcolatori elettronici, si reggeva sull’autofinanziamento e sul credito bancario: solo davanti al baratro del fallimento Adriano accettò di ricorrere al mercato dei capitali. E questo sarebbe il modello da imitare? Quello di un imprenditore che, a ogni evidenza, non sapeva fare i conti?

Al fondo c’è l’assenza dell’idea sulla vera natura dell’impresa. Lo riconosce egli stesso: nel discorso di Pozzuoli, dichiara di non sapere quale sia lo scopo vero di un’azienda, aldilà di quello, che evidentemente considerava falso, di fare profitti. E invece questo implica darsi una corporate governance, una struttura patrimoniale, una pianificazione finanziaria; e anche una politica di distribuzione degli utili.

Chi neppure si pone questi problemi è di sicuro un esempio di imprenditore da non imitare. Tant’è che, nonostante l’azienda funzionasse in modo estremamente efficiente, finì per perderla. Non volle mai accettare che l’etica dell’impresa fosse fare profitti.

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