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L’imperativo di tagliare la spesa

Pubblicato il 07/08/2012 @ 08:30 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Una parte dello spread, si dice, è dovuta al timore che l’Italia sia costretta a uscire dall’euro, una parte (200 punti base, secondo Ignazio Visco) dipende dai fondamentali del nostro Paese. Ma siamo ben coscienti che i 200 punti “nostri” stanno, per così dire, sotto; se non ci fossero, al di sopra non ci sarebbero neanche i punti “dell’euro”. I numeri sono quel che sono, la differenza sta nei tempi: i tempi lunghi per risolvere i nostri problemi, e i tempi necessariamente limitati degli interventi straordinari della BCE sui titoli del debito pubblico. «The market can be wrong longer than you are liquid» («Il mercato può sbagliare più a lungo di quanto tu possa essere liquido»), l’adagio vale per gli investitori privati e per i gestori professionali, ma neppure la Bce può stampare moneta illimitatamente. Anche se non ci fosse un giudice a Karlsruhe.

La necessità di ridurre lo spread “nostro” diventa, con la manovra annunciata giovedì scorso dalla Bce, ancora più stringente; e lo sarebbe con qualsiasi manovra si possa escogitare per il futuro. Supponiamo infatti che i Paesi in crisi non facessero nulla: finito l’intervento calmieratore, ricomparirebbe lo spread “dell’euro”. Chi avrà comperato titoli a medio-lungo termine a tassi calmierati subirebbe una secca perdita in conto capitale: gli investitori l’hanno ben presente, e quindi la possibilità che siano loro e non la Bce a comperare titoli a tassi ridotti dipende in modo cruciale da quello che noi siamo capaci di fare per abbassare il “nostro” spread. E questo vale per tutti i Paesi in difficoltà, noi, la Spagna …(di Grecia taccio).

Ogni Paese ha poi i problemi specifici suoi. Il nostro è dover presentare per molti anni di fila un avanzo primario che consenta di riportare il debito a livelli non pericolosi; e questo a sua volta presuppone una crescita a tassi che non abbiamo più visto da anni.

Di qui la domanda: quale contributo alla crescita dà la manovra decisa dalla Bce, e che cosa possiamo fare per utilizzarla al meglio? Tassi più bassi per il Tesoro riducono il futuro costo del servizio del debito; per le imprese invece significano fare o non fare un investimento, e quindi influiscono in modo decisivo sulla crescita. L’intervento della Bce ha proprio lo scopo dichiarato di trasmettere la politica monetaria all’economia reale. Ma non è con operazioni finanziarie che si risolvono problemi reali: bisogna che le imprese trovino conveniente investire, e che sia basso il premio al rischio che le banche applicano. Quanto ci si può aspettare in termini di crescita?

Varrebbe la pena fare qualche esercizio numerico, e aprire un riflettore sul rapporto banche-imprese; senza però dimenticare che si sono castigate le banche per non aver saputo prezzare il rischio, e intervenire adesso e dirgli a chi, quanto e per far che cosa prestare significherebbe ritornare a non rimpiante economie di piano.

La nostra bassa crescita dipende da cause strutturali. L’elenco è stranoto, bastano i titoli: un’amministrazione ipertrofica ed inefficiente, un carico fiscale e un sistema giuridico che rendono il paese non attrattivo per gli investimenti. Ai fini di queste riforme strutturali, il contributo della “tregua” decisa a Francoforte è minimo: il divario di competitività a due cifre l’abbiamo accumulato quando lo spread era quasi nullo, quanto può fare una sua riduzione? Ci vogliono le riforme vere: l’elenco noi l’abbiamo già presentato, Bruxelles l’ha già approvato, renderlo più severo sembra difficile.

Questo non vuole affatto dire che non ci sia nulla da fare. Un’analisi condotta sulle politiche di uscita di tutte le crisi degli ultimi 15 anni conferma che le manovre basate (principalmente) sul taglio delle spese sono non recessive nel primo anno, e che già dal secondo inizia la ripresa; mentre quelle basate sull’aumento delle tasse sono recessive con un moltiplicatore che arriva fino a tre. La riposta di Monti a Draghi dovrebbe essere una revisione, a parità di saldi, degli impegni, nel senso di ulteriori tagli a fronte di una riduzione della pressione fiscale.

Questo è il compito che ci rilanciano le decisioni della Bce. A chi ne dubitasse, si propone questo esperimento mentale. Supponiamo che i Paesi a cui sono destinati gli interventi indicati da Draghi non prendano misure che abbassino lo spread “proprio”. Finiti gli interventi straordinari, lo spread risalirebbe, si dovrebbero rifare i piani, renderli più severi. “Difenderci” diventerebbe per la Bce ancora più costoso, e politicamente difficile: le macchine che stampano moneta si possono inceppare, e i loro proprietari diventare impazienti (ne sono un assaggio certe reazioni polemiche registrate negli ultimi giorni in Germania), la pressione di Bruxelles sui governi (e sui Parlamenti) si farebbe maggiore e più ficcante l’ingerenza. Forse gli stati forti dell’eurozona possono sostenere a lungo il peso di alcune province deboli, ma sarebbe un’Europa diversa da quella che si voleva. Per i deboli come per i forti.

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