Liberalizzazioni, il cattivo esempio del credito

marzo 9, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


“Se le ex Fondazioni bancarie non sapranno cambiare il passo , allora tanto valeva distruggerle quando si è deciso del loro futuro”. Giuliano Amato ( “Le Fondazioni fuori dal credito”, Sole 24 Ore di martedì) deve usare toni sempre più forti per bacchettare le Fondazioni: non solo non intendono “scrollarsi di dosso il passato”, non solo mantengono posizioni di controllo, ma rivendicano per sé il ruolo di stabilizzatori del sistema bancario, di “ago della bilancia”, per usare le parole del Presidente della Fondazione Cariplo. E questo a pochi mesi dall’approvazione della legge che avrebbe dovuto indirizzare i loro capitali e le loro energie all’attività no profit.

Quanto a stabilizzazione, non c’è che dire, c’è stata. Quasi ogni giorno vengono mosse critiche al nostro sistema bancario: bassa efficienza, scarsa propensione al rischio, incapacità di accompagnare lo sviluppo delle nuove iniziative, di stare al passo con la new economy. In Germania sta succedendo l’impensabile, la fusione tra Deutsche e Dresdner sancisce la fine del “modello europeo” e dei controlli blindati dagli incroci azionari.
Invece da noi il modello prevalente delle fusioni bancarie resta quello federativo, che aggrega senza fare efficienza, e anche ai vertici trova un posto per tutti: se ciò è avvenuto è anche perché la legge consente alle Fondazioni di continuare a partecipare al controllo delle banche. Certo, conta pure l’avversione del Governatore della Banca Centrale alle scalate ostili: ma c’è una bella differenza tra interpretare in modo restrittivo il compito di assicurare la stabilità, che la legge impone a Bankitalia, e varare una nuova legge che, invece di modificare gli assetti proprietari, li stabilizza.
Questa partita è ormai compromessa: a raddrizzarla si può solo contare, nel breve sulla moral suasion di Amato, nel lungo sulla forza del mercato. Se si ripropongono queste considerazioni è solo perché si stanno giocando altre partite anch’esse gravide di conseguenze: nel deciderle sarebbe bene tenere presente la storia delle Fondazioni.
La prima partita è quella del gas. Vogliamo combattere l’inflazione con maggiore concorrenza, ha affermato pochi giorni fa il Presidente del Consiglio. Ha l’occasione di dare subito una dimostrazione della sua volontà: il governo ha predisposto un decreto di liberalizzazione del gas di indubbie valenze positive. Ma gli effetti sulla concorrenza saranno sicuramente ridotti, forse vanificati, se non si separerà la proprietà della rete e dello stoccaggio dalla vendita del gas, come richiede l’Antitrust.
Ho già illustrato su questo giornale le ragioni per cui la separazione societaria è insufficiente, e per cui potrebbe perfino essere controproducente. Qualunque opinione si abbia in proposito, nessuno può negare che “vendere i tubi” aumenta la concorrenza: se questa è la priorità, il Governo per essere coerente non deve esitare e deve compiere questo ulteriore scatto.
La seconda occasione è offerta dal disegno di legge sui servizi pubblici locali, che, dopo un’interminabile gestazione, dovrebbe affrontare tra poco l’aula del Senato. Anche qui, é’ indubbio che il progetto presenti elementi di positiva novità: è dubbio che siano sufficienti. La realtà sotto i nostri occhi è quella di comuni che o si tengono ancora strette le loro aziende municipalizzate o hanno venduto quote di minoranza e rivendicano per sé il ruolo- guarda guarda che combinazione – di stabilizzatori del sistema contro possibili “aggressioni selvagge”: il nome che dànno alla concorrenza.
La Corte dei Conti accusa Stato e Comuni di non saper fare rendere gli immobili di loro proprietà: ma che dire delle aziende di proprietà pubblica? Quanto rendono al Comune di Torino l’AEM o l’aeroporto di Caselle, e quanto renderebbe il capitale che incasserebbe se vendesse? E perché lo stato dovrebbe trasferire risorse ai comuni quando questi non fanno fruttare i beni di loro proprietà?
Le analogie tra le aziende pubbliche locali e le fondazioni delle casse di risparmio dovrebbero fare riflettere. E’ Marcello Pacini (Sole 24 Ore del 7 Marzo)a sottolineare che solo a patto di attuare una generale liberalizzazione, il federalismo manterrà la promessa di costruire “una geoeconomia per ciascuna regione e territorio”. Quelli che nasceranno dalle elezioni regionali di Aprile saranno governi costituenti: molti segni fanno temere che la spinta liberalizzatrice venuta da Bruxelles, sovente subìta dal governo nazionale, si arresti del tutto a fronte della resistenza degli interessi locali. Senza una forte volontà liberalizzatrice c’è perfino il rischio che l’autogoverno delle comunità locali dia luogo a forme di centralismo che, anche per la minore dimensione, risulteranno difficili da individuare e smontare.
Ma come le Fondazioni si opposero – e ancora si oppongono – perfino ad una legge tanto moderata da essere poco efficace, così i comuni d’Italia perlopiù resistono a una legge essa pure assai moderata, qual è quella che tra poco affronterà l’aula del Senato.

Al Ministro del Tesoro la legge lascia solo l’arma della moral suasion, dell’esortazione perchè le Fondazioni lascino la presa che ancora esercitano sulle loro casse. Non è uno spettacolo edificante. Bisogna evitare che la scena si riproduca domani con l’ENI o con i comuni. Basta pensarci oggi: gli strumenti ci sono.

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