Le privatizzazioni non profit

giugno 27, 1997


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Frankenstein oppure Dottor Jekill e Mister Hyde? Parliamo ovviamente di fondazioni bancarie e della legge in esame alla Camera. Il progetto, redatto da giuristi non certo “giacobini”, firmato da Ciampi, sembrava avviato ad una agevole conclusione.
Anche perche’, da quando era stato presentato, le cose si erano mosse. Quanto alla privatizzazione, Sanpaolo e Cariplo hanno avviato propri programmi; per le banche meridionali ha provveduto la cogenza dei conti economici e del Codice civile; al vertice della piu’ tetragona, Montepaschi, e’ stato posto un presidente di grande levatura. Quanto agli esuberi e’ stata trovata, con i buoni uffici del Governo, una soluzione che pare soddisfacente anche per la Banca di Roma, cui il problema sta particolarmente a cuore.

Quando, con Giavazzi, Penati e De Nicola, lanciammo il nostro progetto, (si veda Il Sole 24 Ore del 13-9-95) quello della privatizzazione delle banche sembrava uno dei tanti problemi che si trascinano insoluti. Credo si possa affermare che abbiamo avuto un certo ruolo nello smuovere la situazione prodotta dalla legge Amato, posto che la direttiva Dini non riusciva a produrre effetti concreti. Ricordiamo le reazioni, il moltiplicarsi di articoli di giornali, i convegni, le polemiche.

Effettivamente la situazione si e’ sbloccata: ma lungo traiettorie concettuali affatto diverse da quelle da noi proposte. Punto focale sono diventate non le banche, ma le fondazioni, secondo quanto fin dall’inizio propugnato da Renzo Costi; obbiettivo e’ diventato non sviluppare il mercato dei diritti di proprieta’ delle banche, come strumento di efficienza allocativa e gestionale, ma far nascere le organizzazioni non profit.
Le prime trincee di resistenza alla nostra proposta – vale a dire l’inadeguatezza de mercato e il presunto status giuridico privato delle banche – sono state presto abbandonate: la prima, smentita dai fatti, i casi Sanpaolo, Cariplo, perfino in qualche misura Banconapoli essendo li’ a dimostrarlo.; la seconda risolta dallo stesso legislatore, che subordina l’attribuzione futura dello status giuridico privato alla modifica degli attuali statuti.
La privatizzazione delle banche, obbiettivo della legge Amato, e’ cosi’ passato in secondo piano; l’impegno legislativo e’ invece rivolto a risolvere una sua conseguenza non adeguatamente valutata: inventarsi uno scopo per le fondazioni, cui si consegna un patrimonio tra i 30 e i 50.000 miliardi. Amato se ne accorse, e si chiese se non avesse creato un Frankenstein.
I sostenitori di questo revirement fanno riferimento all’esempio americano: ma là le fondazioni nascono da imprese che hanno operato con successo sul mercato; qui il non profit dovrebbe nascere dal pubblico, da fondazioni gestite per generazioni in modo pubblico e con nomine pubbliche, e che non hanno mai conosciuto il mercato.
In Usa le fondazioni sono create da privati che devolvono, mercè un congruo incentivo fiscale, a scopi pubblici una parte del loro patrimonio: il non profit nasce dal profit. Qui e’ il pubblico che, cedendo – tutta? una parte? – della sua attivita’ profit, dovrebbe cambiare natura e diventare non profit. Non tenere presente questa differenza genetica produce ambiguita’, e difficolta’ all’iter legislativo. E si incominicano a vedere avvisaglie di questa confusione.
Ora i nodi sono due. Primo: posto che l’obbiettivo e’ la perdita di controllo delle fondazioni sulle banche, lo strumento la modifica degli statuti, il risultato l’acquisizione della personalita’ privata, chi sancisce che l’obbiettivo sia stato raggiunto, e in modo definitivo?
Secondo: come investiranno le fondazioni il cospicuo patrimonio – ripetiamo, da 30 a 50.000 miliardi – che la legge Amato ha fatto emergere? La relazione di accompagnamento del Governo e’ (abbastanza) esplicita: “naturalmente il principio sancito esclude ogni altro tipo di titolarita’ di impresa; fa cioe’ delle fondazioni meri investitori finanziari senza responsabilita’ di gestione, neppure quella del socio cosiddetto di riferimento. E’ altrettanto chiaro tuttavvia che spettera’ alle fondazioni esercitare tuti i poteri di un azionista intenzionato a far valere il proprio investimento a fini del maggior reddito”.
Ma l’articolato impone solo una generica “diversificazione degli investimenti.”. Che sia utile una maggiore chiarezza lo nota pure il relatore di maggioranza Agostini che si domanda “se non sarebbe opportuno rendere obbligatorio [...] l’affidamento della gestione del portafoglio della fondazione ad intermediari autorizzati”.
Rendere al mercato il controllo delle banche, evitare che le fondazioni devolvano il loro patrimonio al controllo delle imprese “privatizzande” – le virgolette sono d’obbligo – : queste i due obbiettivi irrinunciabili. Abbandonata la trincea avanzata della soluzione di mercato, adesso occorre impegnarsi su una linea difensiva piu’ arretrata: la certezza che l’affidare alle fondazioni un tale patrimonio non si traduca nella beffa di non avere privatizzato ne’ le banche ne’ le aziende di Stato.
E’ condivisa questa esigenza minima da chi solleva il probema dell’autorita’ di vigilanza? Se cosi’ fosse, il problema sarebbe facilmente risolvibile. Periodo transitorio, fino alla pedita del controllo delle banche: vigila il Tesoro, anche imponendo obblighi di redditivita’.
Dopodiche’, fissato per legge e recepito in statuto l’obbligo di affidare la gestione del patrimonio ad intermediari professionali, il controllo puo’ essere lasciato alla magistratura ordinaria. Infine controllo di come le fondazioni spendono il reddito: si possono immaginare soluzioni diverse, autorita’, oppure assemblee di “soci” rappresentativi degli interessi delle comunita’, in ogni caso obbligo di trasparenza che consenta ai cittadini il confronto competitivo tra obbiettivi, costi, risultati.
Tutto cio’ puo’ sembrare ovvio, ma l’esito e’ tutt’altro che scontato, per l’agire di forze diverse: il PDS preoccupato che il processo di privatizzazione delle banche avvenga in modo graduale e pilotato; il Governo è interessato a trovare soluzioni formalmente neutrali ed anonime ma sostanzialmente di tutta fiducia nella scelta dei noccioli duri delle societa’ da privatizzare; la Banca d’Italia è favorevole a trovare soggetti non bancari che assumano quote rilevanti nelle imprese; il mondo cattolico e solidarista, è desideroso di dimostrare il ruolo positivo di attivita’ non profit, con pero’ un’acuta sensibilita’ al potere che un tale patrimonio garantisce: come starebbero a dimostrare le affermazioni del Presidente Scalfaro al seminario Cariplo.
E’ indispensabile fare chiarezza ed isolare i problemi: far nascere il non profit dalle fondazioni pubbliche, in un contesto culturale che finora non lo conosce, e’ cosa non facile; investirci 50.000 miliardi puo’ anche essere una scommessa giusta. Ma si deve evitare che questo problema inquini anche quello delle banche e delle aziende di stato. E’ questo il rischio cui si accennava all’inizio: che Amato debba ricredersi una seconda volta e cambiare metafora: non piu’ Frankenstein, ma il dottor Jekjll e mister Hyde.

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