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Le idee liberali senza paladini

Pubblicato il 04/03/2017 @ 09:05 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Che intenzioni ha? Una volta erano le mamme a chiederlo alle figliuole, e si riferivano ai loro corteggiatori. Adesso invece tocca agli investitori essere indagati: chi supera determinate soglie di partecipazione in società quotate, dal 5% in su, dovrebbe dichiarare che cosa intende fare nel prossimo futuro, se fermarsi dov’è giunto, oppure procedere nella conquista del controllo.

Non sembri irrispettoso il paragone. È che la dichiarazione di intenti è un oggetto ostico per i giuristi: non è un negozio, perché non dispone e non impegna, almeno finché non è tradotto in impegno formale. Non parliamo poi degli obiettivi, che non sono mai assoluti, ma dipendono da altri fatti, dalle circostanze economiche e politiche, comprese le reazioni che ha suscitato il manifestarli. Gli investitori conoscono il dubbio, che si insinua un po’ per volta, e può volgere un’intenzione nel suo opposto: quand’è che un “forse sì” diventa un “meglio no” e viceversa? Gli investitori conoscono anche la menzogna: che non è solo non dichiarare il vero, ma anche dichiarare il falso, “per vedere l’effetto che fa”. Si entra in una probatio diabolica che farà felici arbitri e avvocati.

Ed effetto lo fa di sicuro, anzi più d’uno. Effetto sul valore delle azioni vincolate, che dovrebbero avere una quotazione diversa da quelle normali; ma anche su queste ultime, dato che un limite alla scalabilità diminuisce il valore di un’azienda, facendo aumentare il costo del capitale. Effetto sugli azionisti: quelli che hanno l’obbligo di dichiarare le loro intenzioni hanno meno diritti degli altri, senza avere contropartita, costituiscono quindi una categoria diversa. Effetto sul management, che sapendo di essere protetto dalla concorrenza, ha meno incentivi a diventare più efficiente: cosa particolarmente antipatica se l’azienda è già in posizione dominante. Curiosa situazione potrebbe essere quella del management, o dell’azionista di controllo: se desidera essere comperato, in toto o in parte, sarà anche lui tenuto a dichiarare le proprie intenzioni? Effetto sul regolatore: la decisione sulle aziende a cui applicare la norma verrà presa da Consob, e non è detto collegialmente, aumentandone il già non piccolo potere discrezionale.

Effetto sul Paese: quando lo Stato non può e i privati non vogliono investire, c’è ancor più bisogno di investimenti diretti esteri. Da noi questi sono poco sopra l’1% del Pil: se ci portassimo al 4,5% come nel resto d’Europa, sarebbero una ventina di miliardi di euro in più, tanto quanto la “flessibilità” che imploriamo dall’Europa. È per attirarli che, all’efficienza della P.A., alla velocità del sistema giudiziario, alla semplicità del fisco aggiungiamo l’obbligo questa dichiarazione di intenti? Chiedendo agli altri di dichiarare le proprie intenzioni, si dichiara la propria debolezza, di temere cioè più le “scorrerie” altrui che non contare su quelle delle nostre aziende. Eppure coi Cantieri di Saint-Nazare ci eravamo andati vicino.

Anche questo va a rinvigorire lo statalismo di ritorno. In Mps, tanto si è rinviato finché la nazionalizzazione è diventata la sola soluzione: siamo tutti certi che entro due anni l’azienda verrà restituita al mercato? Invece di approfittare della necessità di abbattere il debito per vendere le Poste tutte intere e un bel pezzo di Ferrovie, si colgono i pretesti più inverosimili per rimandare. Dopo aver tentato in più modi di creare una rete telefonica di proprietà pubblica, e indotto Enel a scoprire sinergie con la posa dei contatori elettronici, Matteo Renzi nel suo discorso alla assemblea del Pd ha ancora lanciato strali alla privatizzazione di Telecom. Viene da chiedersi se queste cose le fanno perché ci credono o perché pensano di rubare un po’ del vento nazionalista che gonfia le vele dei Cinque Stelle.

È in queste occasioni che si sente la mancanza di una forza politica che promuova le ragioni liberali e del mercato. Non c’è a destra, dove anzi una norma analoga era già stata proposta nel 2011; non a sinistra, dove hanno la precedenza le spaccature interne del solo partito che ci ha dato le liberalizzazioni che conosciamo. Dove, per aggiungere la beffa al danno, hanno la spudoratezza di usare questa norma così evidentemente anticoncorrenziale per svegliare dal letargo la bella addormentata, la legge sulla concorrenza.

Il 25 Marzo, sessantesimo anniversario del trattato di Roma, verranno i leader di tutta Europa. Come padroni di casa potremmo offrire, elegantemente confezionata, una copia di questa norma sulla dichiarazione obbligatoria di intenzioni. È vero che non è proprio questo il senso in cui i padri fondatori pensarono lo spazio europeo; è vero che quella tra gli Stati che hanno norme “antiscorrerie” non è una di quelle cooperazioni rafforzate che ha in mente Merkel. Ma apprezzeranno l’intenzione.

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