Le domande dei moderati

febbraio 20, 1996


Pubblicato In: Varie


Quali garanzie dare in un sistema maggioritario, all’elettorato moderato da parte di una coalizione di centrosinistra caratterizzata su una proposta di governo e non di protesta? Il problema si identifica con la ragione stessa per la quale, due anni fa, decisi di raccogliere la candidatura al Senato offertami dai progressisti.
Allora, il maggioritario era alla sua prima prova, l’elettorato moderato era sotto il fortissimo impatto del crollo repentino dei tradizionali partiti di governo ai quali per tanti anni aveva garantito il consenso, lo scontro elettorale fu dominato da una violenta e reciproca delegittimazione. Tutto ciò rese la scelta, se non isolata, sicuramente minoritaria. Una parte del consenso dei moderati si indirizzò verso la residua offerta di un centro politico inteso come terzo polo elettorale – allora il Ppi e Segni; un’altra parte, sotto la suggestione propagandistica anticomunista, facilitata in ciò dal terzo polo centrista, si indirizzò verso il Polo; non abbastanza furono coloro che videro nei progressisti ga-ranzie per un governo stabile ed europeo del paese.
Le differenze rispetto a due anni fa sono numerose, e profonde le implicazioni: tanto da far sperare in un risultato di segno diverso.

Sembra acquisita innanzitutto la convinzione che il `centro’ politico è il fulcro e l’asse del ‘governo possibile’ del paese, non un luogo fisico e autonomo della geografia elettorale e parlamentare: l’ha riconosciuto per primo, con grande coraggio, l’attuale sindaco di Brescia, Martinazzoli, che due anni fa guidava il Ppi: e ciò ha giustamente pesato nella scelta di Dini. Ma veniamo alle differenze sostanziali. Il centrosinistra, in questi due anni, si è impegnato ad ampliare la rappresentanza di voci e personalità moderate: una ricerca tanto determinata da essere giudicata da taluni financo eccessiva. È stato questo il filo rosso delle iniziative condotte verso i popolari – da cui è venuta risposta positiva -, e verso la Lega – problema invece ancora aperto nel travaglio italiano. Lo sforzo è culminato nella disponibilità a offrire al paese un premier che di quest’area è espressione – Romano Prodi. Ancora in questo senso va il sostegno alla recente nascita dell’Unione democratica guidata da Antonio Maccanico, e la chiara offerta avanzata a Dini.
Ma la prova concreta offerta ai moderati è venuta su un altro terreno: non solo quello delle intenzioni per il futuro ma quello dell’azione quotidiana nell’anno e mezzo alle nostre spalle.
Chi sono i moderati? Sono più di quel 15 per cento che votarono il Patto per l’Italia nel ’94; sono forse meno di quel 40 per cento che nei sondaggi non esprime più appartenenze politiche con-solidate; sono coloro, di segmento sociale non necessariamente medio né medio-alto, che votano senza vergognarsi guardando più al portafoglio che ai libri sugli scaffali; sono per definizione cioè coloro che identificano e sostengono il ‘governo possibile’ di un paese. Non il migliore tra quelli proponibili sulla carta, ma quello che ha la maggior probabilità di attuarsi con il minor danno prima che il maggior vantaggio – per il paese. È a questa ampia fascia di società italiana che il centrosinistra ha offerto una prova assai concreta. È sotto gli occhi di tutti che solo grazie al sostegno parlamentare del centrosinistra il governo Dini ha potuto procedere per non compromettere più gravemente l’economia del paese. È sotto gli occhi di tutti che scelte di chi, come me, viene da ambiti professionali e civili estranei ai partiti, si annunciano questa volta meno isolate nelle file del centrosinistra.
Ritengo però, malgrado tutto questo, che credere di avere in tasca il consenso che due anni fa ci fu negato, sarebbe un grave errore. E concludo pertanto con tre precise indicazioni. Primo: poiché la ripresa nei sondaggi delle forze di centrodestra dopo il fallimento del governo Berlusconi ha provato che l’elettorato moderato è forse più affezionato al maggioritario di quanto non si creda, oc-corre esprimere pubblicamente un impegno. Se questa volta, dopo un’eventuale vittoria elettorale, fosse una qualunque delle componenti del centrosinistra a cambiare idea sul governo, va detto fin d’ora con chiarezza che la parola deve tornare agli elettori nel più breve tempo possibile. È l’impegno antiribaltone più efficace, anche considerando che con la candidatura Dini alle elezioni appare esaurita, per un certo periodo della vita nazionale, la formula dei governi cosiddetti tecnici.
Secondo: va mantenuto alto l’impegno a concorrere insieme – chiunque vinca le elezioni – alla definizione del nuovo patto costituzionale per una diversa forma di stato e di governo. Per i mode-rati, le istituzioni politiche, come le regole del mercato, non sono beni a disposizione del vincitore, ma sono garanzia per tutti.
Terzo, ed è questa la sfida più difficile: non basterà ricordare che il centrodestra ha malamente tradito il programma liberista su cui ottenne i voti. E neppure, forse, esibire il sostegno al ‘governo possibile’ sin qui espresso. Per convincere l’ultima e decisiva parte di italiani che manca all’appello occorrerà anche esibire uomini la cui storia e il cui tono lascino presagire un governo che non assicuri solo
chi ha timori dei rischi di avventure, ma sia capace di dare più crescita al mercato interno, tributi meno oppressivi, più libertà alle imprese: in una parola uomini, competenze e toni che parlino di riforme europee, non più solo di strette fiscali e rassegnazioni ai vincoli burocratici.
Guardiamoci da un rischio: che il centrodestra possa avere buon gioco nel sostenere che in questo centrosinistra si annidino residui assistenzialisti e statalisti, per effetto di un assemblaggio di formazioni accusate di trasformismo. Allarmi come quelli levati da un Sergio Romano o da un Galli della Loggia segnalano che a questa eventuale accusa bisognerà dare risposta più concreta che un’alzata di spalle. Su quest’ultimo punto ciascun leader e ciascuna componente politica del centrosinistra sa che c’è ancora un tratto di strada da percorrere.

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