Le briglie alla scienza

luglio 23, 2005


Pubblicato In: Giornali, La Repubblica

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Replica a Giuliano Amato sulla libertà scientifica

Preoccupato di ritagliare per la scienza uno spazio di libertà, Giuliano Amato ricorre alla distinzione che fa Hans Jonas tra la scienza, “volta esclusivamente a conoscere la realtà che ci circonda”, e la “non scienza ma tecnica, volta invece a introdurre mutamenti nella realtà”; o a quella tra homo sapiens e homo faber, che il filosofo tedesco vede distinti pur riconoscendo che primo “lavora in genere in funzione” del secondo.

Sono però entrambe distinzioni che non reggono all’analisi. Senza l’homo faber l’homo sapiens non avrebbe mai potuto raggiungere il suo “risultato scientifico nuovo”. Vale sul piano empirico: sono rari i casi di esperimenti mentali, del tipo di quello sull’effetto fotoelettrico, il primo dei paper del 1905, quello che valse il Nobel a Einstein. Vale sul piano epistemologico: giacchè anch’egli si valse di fatti sperimentalmente provati da altri. Vale sul piano economico: la previsione di uno sfruttamento industriale è il motore potente che spinge la ricerca scientifica.

Ma è soprattutto la prima distinzione, quella tra la scienza volta a conoscere e la tecnica volta a modificare che non regge. Perché la fondamentale caratteristica della realtà fisica, non solo quella “che ci circonda, ma quella di cui siamo fatti, è di essere conoscibile solo al prezzo di modificarla: lo afferma la fisica quantistica, una teoria scientifica verificata con la maggiore precisione che si conosca.
Lo stesso può dirsi delle scienze umane. L’antropologia modifica inevitabilmente le popolazioni primitive che vuole studiare. Se la psicanalisi ha effetto terapeutico, è proprio per le modifiche che conseguono al rendere conscio l’inconscio. All’estremo opposto, in campo cosmologico, il principio antropico, soprattutto nella sua versione forte, induce inquietanti interrogativi sulla presunta distinzione tra noi e la “realtà che ci circonda”.

Se non c’è un linea di demarcazione ontologica i due campi, della scienza e della tecnica, del conoscere e del modificare, dell’homo faber e dell’homo sapiens, diventa difficile fondare su questa distinzione un diverso statuto etico, che garantisca gli “sconfinati confini” alla “libertà della scienza”. Giuliano Amato si domanda se i fisici che resero possibili i devastanti effetti dell’energia nucleare fossero “assistiti dalla incensurabile libertà della scienza”. Fu un interrogativo che gli scienziati di allora vissero in modo tormentato, e che spaccò il gruppo di Via Panisperna, Fermi e Segré. Ma credo che la storia successiva fornisca la risposta: se addossiamo agli scienziati che hanno fatto la bomba la responsabilità dei suoi usi, dovremmo accreditare loro anche tutti i meriti: nel caso specifico, aver vinto il comunismo, avere permesso il lunghissimo periodo di pace al riparo della teoria della MAD: mentre é evidente che responsabilità e meriti sono oggetto di giudizio politico e ricadono sui politici che avevano il controllo dell’arma.

Questi interrogativi e queste riflessioni nascono ovviamente dal tema della bioetica. La preoccupazioni di Amato è di dedurre da quelle osservazioni generali un criterio per distinguere: libertà senza confini per tutto ciò che riguarda i processi conoscitivi, e “una diversa responsabilità” là dove si “applica la conoscenza a processi o ad atti modificativi della realtà”. Ho già detto delle ragioni per cui è, a mio avviso, logicamente prima ancora che praticamente impossibile operare questa distinzione; ragioni che valgono ancor più nel caso della ricerca biomedicale: per sapere se le staminali curano l’Alzheimer, è necessario mettere in atto “processi modificativi della realtà” e delle staminali e dei malati di Alzheimer.
Le sconfinate possibilità aperte dalla bioetica ci fanno pensare di essere di fronte a un problema nuovo. Ma manipolazioni del corpo umano per ottenerne modificazioni dell’”anima” sono sempre avvenute: naturalmente con le “tecniche” di cui si disponeva. Le tribù che mangiano il cervello dei loro nemici vogliono ottenere una modifica permanente della propria individualità personale; le torture e i roghi non erano solo punizioni, miravano a cambiare l’anima; la lobotomia e la castrazione chimica sono manipolazioni dell’essere umano. Ma nessuno si sogna di condannare quelle pratiche in base ai nostri attuali criteri morali: li giudichiamo come fatti culturali, di cui è fatta la storia dell’umanità. “Il concetto stesso di vita è impossibile da comprendere fuori di schemi culturali” dice Amato citando Sebastiano Maffettone.

Amato invoca il principio di precauzione: ma chi decide in merito? Gli scienziati nei loro “sconfinati confini “ di libertà? Oppure uscendone e gettando lo sguardo aldilà e immaginando tutte le possibili conseguenze dei loro atti? Il principio di precauzione se è assoluto, paralizza; se no, è una blanda raccomandazione alla prudenza.
Ma allora è proprio la pretesa di salvare la libertà della scienza limitandone il campo di applicazione che è destinata a restare insoddisfatta. Basta guardare un po’ indietro o un po’ accanto per rendersi conto che ciò che, in questo momento, in questa parte del mondo, consideriamo lecito o non lecito è un fatto culturale, soggetto all’evoluzione. Lo è la scienza, lo è la stessa libertà concessa alla scienza, dalla società degli scienziati e dalla società in generale. Lo scienziato non è un uomo diverso. Ha, come tutti, la responsabilità dei propri atti, di quelli compiuti e di quelli che avrebbe potuto compiere e che ha omesso: ha la responsabilità della propria libertà.

“Se io non impongo assoluti, tu non imporre assoluti”. Per Amato il dialogo “ possibile e auspicabile” parte da questa frase del cardinale Scola. Mi permetto di dubitarne: non si tratta di rinunciare a “mettere i campo” gli assoluti, si tratta di riconoscere che non esistono.

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