Le api riformiste ora pungano forte – La Fed è un timone o un motore?

marzo 2, 2005


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Che fare. Dopo il caso Morando

“Sic vos non vobis mellificates apes” proprio coloro che alla costruzione dell’alveare – la federazione dell’Ulivo – avevano lavorato quando nessuno ci credeva, proprio coloro che chiedevano che su temi importanti si convocasse l’assemblea degli eletti dell’Ulivo, un’assemblea dove alla fine si vota e ci si conta, proprio coloro che in occasione del congresso Ds, addirittura avevano rinunciato a distinguersi con una propria piattaforma politica per sottolineare il proprio sostegno all’innovazione organizzativa, non avranno un proprio rappresentante nella direzione della Federazione dell’Ulivo. Capisco quindi la protesta – tutta politica – di Enrico Morando.

Acquisita la struttura federativa dell’Ulivo, ritorna in primo piano il problema della sua identità politica: e da oggi è su questa trincea che si combatte la battaglia politica all’interno dell’Ulivo. Il fatto che esista la Federazione e la sua semplice regola, cioè il voto, consente di condurla con maggiore libertà. Per quanto mi riguarda intendo approfittarne, senza fare sconti e senza compromessi tattici. A che pro d’altronde. Di ulteriori calcoli di convenienza, di ottusa tranquillità dei luoghi comuni, di illusorie scappatoie negli ossimori, non si sente davvero il bisogno.

E, tanto per chiarire, vorrei fare alcuni esempi. Il primo riguarda la definizione stessa della Federazione. E’ “il timone” o è “un motore”? Perché Piero Fassino ha chiesto ai Ds di cedere sovranità alla Federazione, in quanto “timone forte” dell’alleanza (nel frattempo diventata L’Unione). E poche settimane dopo, Romano Prodi, nella lunga lettera al Corriere della Sera sull’Irak e sulla politica estera, definisce l’Ulivo “un motore riformista dell’Unione”. Diversi i sostantivi, diversi gli articoli. Anche se preferisco (e suggerisco di) evitare le metafore propulsive, non disconosco l’importanza dei motori. Ma la natura e la ragion d’essere della Federazione per cui abbiamo votato in congresso, è quella indicata da Piero Fassino. Certo che nel decidere la Federazione dovrà tenere conto di compatibilità e di alleanze: purché sia chiaro che la ricerca delle compatibilità viene dopo la definizione dell’identità, e la scelta delle alleanze viene dopo la scelta della linea politica intorno alla quale aggregarle. Se così non fosse, se, estremizzando, l’esigenza di ricercare il consenso dell’Unione diventasse la stella polare della navigazione politica della Federazione, a che servirebbe il timone?

Si diceva dell’Iraq, primo caso su cui la Federazione è stata chiamata a votare, e al centro del viaggio in Europa di George W. Bush. “L’Europa riprenda a parlare la lingua della libertà”, scrive Philip Stephens, sul Financial Times di venerdì, commentando gli incontri dei leader europei con il Presidente americano. Questo significa mettere in primo piano il dovere di assicurare un futuro alla fragile pianticella di libertà che gli iracheni dal dito blu hanno fatto germogliare nei crateri delle bombe kamikaze; e lasciare tra il non detto la disputa, ormai teologica, se ciò che l’ha consentito era un atto legittimo secondo il diritto internazionale di prima dell’11 Settembre. Parlare di libertà significa dare il sostegno di un applauso al premier ucraino Yushschenko quando dice di voler portare i valori della democrazia occidentale nel suo Paese; e non assentarsi, come ha fatto Jacques Chirac a causa di un impegno (diplomatico?), né stare a braccia conserte per non dispiacere a Putin, come hanno fatto il Cancelliere Schroeder e il Primo Ministro Zapatero. Parlare di libertà significa riconoscere che dopo la scomparsa di Arafat, e in concomitanza con quanto di nuovo sta succedendo in Irak, con l’odiato Sharon e il disprezzato Bush israeliani e palestinesi sono oggi più vicini a un accordo di quanto non lo siano mai stati in mezzo secolo. E non chiudersi nel non possumus di fronte alla novità che attraversano il mondo arabo, in Egitto, in Siria, in Libano.

La maggioranza dell’Ulivo è concorde, ne sono persuaso, nel ritenere che questo Paese soffre per le barriere degli interessi coalizionali che lo segmentano: che si tratti di tassisti o di notai, di distribuzione o di servizi pubblici. Quindi che ciò di cui questo Paese ha soprattutto bisogno è una potente iniezione di concorrenza: tra i prodotti per far emergere quelli più convenienti, quella sui diritti di proprietà per fare emergere le aziende più efficienti e gli imprenditori più capaci. Ma come ci può essere concorrenza nel sistema economico se le imprese che forniscono a tutte le altre i mezzi per operare, cioè le banche, sono sottratte alla pressione della concorrenza, dato che i loro assetti proprietari sono regolati da un’autorità superiore? Questa settimana il provvedimento sul credito ritorna a Montecitorio: propria o impropria che sia l’occasione per metterci mano, l’Ulivo deve essere compatto nel sostenere che anche le imprese bancarie devono rientrare nella competenza dell’Antitrust.

La Rai é la questione politica per eccellenza. Negli ultimi giorni del 2004, Romano Prodi in una lettera al Corriere della Sera, delineava chiaramente il suo programma: separare societariamente la Rai servizio pubblico finanziata dal canone, dalla Rai commerciale finanziata dalla pubblicità. Quest’ultima, scriveva, “dovrebbe” essere venduta. Perché il condizionale? Per timore del partito Rai? Se si deve, si fa. E. aggiungo, le reti da vendere sono due, per evitare un eccessivo squilibrio con Mediaset, e per consentire aggregazioni in syndication con tv locali, grazie anche a quanto disposto in loro favore dalla legge Gasparri. Vendere un pezzo al 100%, come ha fatto Ciampi con la telefonia, non vendere un pezzo (il 25%) di tutto, secondo la farsa di privatizzazione che vorrebbe Gasparri.

Sono solo esempi, che vengono in mente per la loro attualità. La riflessione di fondo è che, se l’inefficienza del governo Berlusconi è un problema per l’Italia, i problemi dell’Italia risalgono a ben prima, forse 30 anni prima, del Berlusconi politico. Hanno quindi radici profonde, anche perché vi ci siamo talmente abituati da considerarli un dato di natura, parte del paesaggio, come le Alpi e il Mediterraneo. Ben venga dunque la libertà iconoclasta consentita da una federazione che discute al suo interno e vota. Si apre una stagione nuova per quelli nell’Ulivo, e ne conosco alcuni, che non hanno timori reverenziali, che non sono abituati a praticare l’ipse dixit, né in positivo verso i propri maestri, né in negativo verso l’avversario. Le loro critiche sono in realtà il miele di cui si nutre l’Ulivo, i loro “sacrilegi” la cera con qui costruire la casa comune.

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