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Lavoro: la riforma possibile

Pubblicato il 01/07/1997 @ 18:23 in Corriere Della Sera,Giornali


Il parere positivo espresso dal Comitato Monetario Europeo sul piano di convergenza italiano presentato da Ciampi ha conferma to che riusciremo a entrare con i primi nel nuovo sistema della moneta unica.
Promossa a Bruxelles per la materia «conti pubblici», l’Italia rischia però nei prossimi giorni di essere bocciata per la materia «mercato del lavoro» a Lussemburgo, se la Corte di Giustizia europea accoglierà le conclusioni della Commissione e dell’Avvoca to Generale, che chiedono la condanna del nostro monopolio stai tale dei servizi di collocamento al lavoro per la sua inefficienza strutturale e la conseguente violazione dei principi comunitari.

Quale che sia il contenuto dell’imminente decisione della Coi te di Giustizia, è certo che il nostro mercato del lavoro non è oggi in condizione di affrontare la sfida dell’ingresso nel nuovo sistema monetario europeo. Né l’handicap di cui soffriamo è soltanto la carenza assoluta delle strutture necessarie per il buon incontro tra domanda e offerta: pesa pure gravemente il difetto di flessibilità della disciplina dei rapporti di lavoro, la mancanza della mobilità necessaria per l’allocazione ottimale delle risorse umane.
Già negli anni Trenta Keynes avvertiva, nella Teoria generale «Se fate parte di un sistema internazionale potete sempre migliorare i vostri affari diminuendo i salari in misura maggiore rispetto ai vostri vicini». Oggi, però, la differenza rispetto ai tempi di Keynes è che, con l’euro, quel «diminuendo i salari» non sarà una scelta deprecabile di rapaci capitani d’industria, bensì la punizione inevitabile per i sistemi meno efficienti in seno all’Unione Monetaria: venendo meno la «valvola di sicurezza» della svalutazione della divisa nazionale, il riequilibrio di competitività tra i di­versi Paesi dell’Unione dovrà avvenire attraverso la riduzione del­le retribuzioni, quale unica alternativa alla fuga dei capitali.
In questo ordine di idee il tema della disciplina dei licenziamenti costituisce un tabù da affrontare senza indugio. Proprio in questi giorni anche Michele Salvati (La sinistra, il governo, l’Euro­pa) ci avverte che, conquistato il diritto di competere nell’agone del sistema monetario unico, diventa indifferibile affinare gli stru­menti della competizione, eliminare quei fattori tradizionali di inefficienza che fino ad oggi abbiamo coperto con la svalutazione Iella moneta; e indica tra le cause di inefficienza l’eccesso di rigidità del nostro diritto del lavoro.
Uno studio dell’Ocse (Grubb e Wells, 1993) assegna all’Italia il grado 10 di rigidità effettiva della disciplina inderogabile del lavoro, a fronte del 7 assegnato alla Germania, 5,5 a Francia e Pae­si Bassi, 2 al Belgio, 1 alla Gran Bretagna. Non basta certo qualche intervento di manutenzione ordinaria: si tratta di passare dal vecchio equilibrio statico a un nuovo equilibrio più dinamico, che consenta l’allocazione migliore delle risorse umane.
Non si tratta dí puntare a un regime di hire and fire all’americana, bensì di contemperare la necessaria tutela della sicurezza di tutti i lavoratori (anche di quelli che ne sono oggi esclusi) con le garanzie per gli imprenditori di prevedibilità dei costi e di flessi­bilità della struttura produttiva, senza le quali l’Italia resterà ta­gliata fuori dai grandi flussi degli investimenti e non potrà mai sperare di eliminare la piaga della disoccupazione.
Il nostro sistema attuale tende a compensare i lavoratori della totale carenza di servizi nel mercato con una tutela di fatto della stabílità del posto spinta al limite della inamovibilità, quindi generatrice di posizioni di privilegio ingiustificato o addirittura di rendita parassitaria.
Il nuovo sistema deve tendere, al contrario, a coniugare un drastico aumento della possibilità di scelta del lavoratore nel mercato e quindi del suo potere negoziale effettivo, attraverso servizi effi­cienti di informazione, formazione professionale, e assistenza alla mobilità geografica, con la possibilità effettiva per l’imprenditore di determinare la quantità e la qualità dell’organico aziendale.
Questo è il nuovo equilibrio che dobbiamo costruire: un siste­ma in cui domanda e offerta di lavoro si incontrano più facilmente nel mercato e in cui la maggiore mobilità rende i lavoratori più pro­duttivi, quindi più capaci di competere nel mercato mondiale.
È questa la concezione della «sicurezza del lavoro» che può e deve essere sostituita a quella finora propugnata dal sindacato, troppo sovente impegnato in difesa di strutture produttive o am­ministrative obsolete, in oggettivo contrasto con l’interesse della maggioranza dei lavoratori e dell’intera collettività. Questa vera e propria «rivoluzione culturale» in seno al movimento sindacale non potrà che essere rafforzata da un terzo intervento legislativo, in aggiunta a quello sui servizi per l’impiego e a quello sui licen ziamenti: una riforma che assicuri una verifica elettorale periodica della rappresentatività effettiva di ciascuna associazione nei luoghi di lavoro e che dalla rappresentatività così misurata faccia dipen dere l’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali, regionali e aziendali.
Solo così il sindacato confederale potrà essere legittimato in modo pieno e del tutto trasparente come interlocutore degli imprenditori e del Governo, ín rappresentanza della generalità da lavoratori.

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