Lavoro, fermiamo la guerra tra i poveri

settembre 18, 1994


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


La Germania arresta i nani al­la frontiera con la Polonia (ma si precisa che si tratta delle statuine in gesso dei compa­gni di Biancaneve). La Svizzera dichiara guerra alla Cina (per la riproduzione del famoso coltellino con lo scudo crociato e l’arco di Guglielmo Tell).

Due notizie curiose, entrambe che rimandano ad un problema: quanta della nostra disoccupazione è indotta dalla concorrenza da parte dei Paesi a basso costo del lavoro? Il problema della disoccupa­zione è certamente al primo posto nell’agenda ideale di tutti gli italiani: alla guida del Wto, l’organismo destinato a sostituire il Gatt, è can­didato l’italiano Ruggiero. Eppure poca risonanza hanno le discussio­ni (all’Ue ed al Congresso) per la ratifica del trattato che istituisce il Wto, in particolare sulla opportu­nità di collegare la liberalizzazione dei commerci ad impegni su livelli minimi di protezione per i lavora­tori (la cosiddetta clausola sociale). Le grandi firme dell’abbigliamento fanno produrre le loro magliette in Bangladesh, con un costo di tra­sformazione inferiore a 100 lire, da parte di donne che lavorano 60 ore la settimana per 50.000 lire al me­se. Si fanno campagne contro l’uso di pelli e pellicce, ma non è ancora passata al Congresso americano la legge che proibisce l’importazione di beni fabbricati usando lavoro infantile.

Protezionismo mascherato da moralismo? Ma non è moralismo il timore che sull’altare del libero mercato possa andare distrutto l’intero nostro sistema sociale e ri­portati indietro di un secolo i rap­porti su cui è basata la nostra so­cietà. E un discorso analogo si po­trebbe fare per l’ambiente, e soste­nere la necessità di una «clausola ecologica».

Di fronte alla concorrenza di Paesi in cui il costo della mano d’o­pera è un decimo della nostra (l’Est europeo) o anche molto meno (l’A­sia) le nostre industrie hanno solo tre opzioni: spostare le fabbrica­zioni in Paesi a minor costo del la­voro; ridurre i costi, cioè compri­mere il prezzo dei prodotti acqui­stati (obbligando i fornitori a delo­cali7zarsi), diminuire i profitti (ciò che indurrà i capitali a spostarsi), e abbattere i salari (rinunciando al modello sociale europeo); oppure fare un salto qualitativo.

La rivista Foreign Affairs, nel suo numero di gennaio-febbraio, ha pub­blicato due ar­ticoli, uno a favore e l’al­tro contrario all’introdu­zione di un «capitolo so­ciale» negli accordi com­merciali.

Coloro che ne favorisco­no l’adozione notano che, consentendo alle grandi multinazionali di alimentare la competizione tra Paesi poveri per attrarre capitali esteri, si delega di fatto un compito politico, quello di assicurare condizioni di lavoro de­centi, proprio a quelle multinazio­nali il cui credo sembra essere il vecchio adagio secondo cui «ciò che è bene per la General Motors è bene per l’America». Ricordano che proprio il New Deal fu accom­pagnato da una legge (del 1937) che servì ad assicurare migliori sa­lari e più decenti condizioni di la­voro, e, impedendo ai singoli Stati di farsi concorrenza l’un l’altro a salari decrescenti, aumentò il po­tere d’acquisto e contribuì al boom postbellico.

Protezionismo bello e buono, so­stengono invece i contrari, partico­larmente in Usa ed in Inghilterra. Citano l’esempio della          politica agricola europea, dove i francesi riuscirono a far inserire una analoga «clausola sociale», che oggi divora l’80% del bilancio comunitario e costa ad ogni famiglia europea oltre 2,5 milioni di lire l’anno. Tutta la retorica sulle condizioni dei lavoratori nei Paesi terzi tenderebbe a mantenere in vita un sistema di relazioni industriali bloccato: sa­rebbe per le rigidità del mercato del lavoro e le eccessive protezioni ai disoccupati se negli ultimi 20 anni l’Ue ha prodotto 3,1 milioni di nuovi posti di lavoro e gli Usa qua­si 30, se il costo del lavoro negli Anni 80 è cresciuto in Europa alla media del 4% l’anno e in Usa dell’1 %. In modo più convincente notano che la richiesta di lavoro non qualificato è diminuita costantemente nei Paesi industria­, lizzati negli ultimi 20 anni a causa I principalmente del progresso tec­nologico, e solo in minima parte per effetto delle importazioni da Paesi a basso costo del lavoro. So­no proprio questi i più grandi mer­cati di esportazione per i Paesi ad alto costo del lavoro: il 40% delle esportazioni degli Usa e dell’Ue so­no verso Paesi non Oecd.

Stiamo vivendo un periodo di transizione: e a chi viene escluso dal mercato del lavoro non si può raccontare che in questo modo il mondo diventa più ricco. Gli au­menti di produttività in agricoltu­ra hanno liberato una enorme massa di mano d’opera: finché questa non sarà stata convertita ovunque a produzioni industriali, la pressione sui salari nel mondo continuerà. La soluzione a lungo termine peri Paesi di più antica industrializzazione è di riuscire ad attirare capitali, comprendendo in questi anche le competenze, per lo sviluppo di nuove attività indu­striali: quindi puntare tutto sulla formazione, e sulla creazione della mentalità di lungo periodo che promuova l’innovazione. Dunque, sia detto per inciso, non solo sulla creazione di un clima di fiducia, ma anche di stabilità, che non ali­menti l’attesa dei facili e provviso­ri guadagni dell’inflazione.

Il problema, non ci si stancherà di ripeterlo, è strutturale. Anche chi resta tenacemente legato all’idea del libero scambio non può non riconoscere la necessità di po­litiche di medio periodo che valga­no ad ammortizzare gli choc trop­po violenti, che distruggerebbero le basi stesse su cui è costruita la nostra società. Non esiste una ri­cetta unica: proseguire sulla stra­da di una graduale fiessibilizzazione, studiare forme più mirate di sussidi, ridurre il cuneo fiscale. Senza escludere fmanco la riparti­zione del lavoro: infatti, finché la produzione cresce, cresce anche la ricchezza collettiva, e il problema è come ripartirla.

Un uso non ottusamente prote­zionista della «clausola sociale» potrebbe servire non solo a lenire i nostri sensi di colpa.

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