La Germania arresta i nani alla frontiera con la Polonia (ma si precisa che si tratta delle statuine in gesso dei compagni di Biancaneve). La Svizzera dichiara guerra alla Cina (per la riproduzione del famoso coltellino con lo scudo crociato e l’arco di Guglielmo Tell).
Due notizie curiose, entrambe che rimandano ad un problema: quanta della nostra disoccupazione è indotta dalla concorrenza da parte dei Paesi a basso costo del lavoro? Il problema della disoccupazione è certamente al primo posto nell’agenda ideale di tutti gli italiani: alla guida del Wto, l’organismo destinato a sostituire il Gatt, è candidato l’italiano Ruggiero. Eppure poca risonanza hanno le discussioni (all’Ue ed al Congresso) per la ratifica del trattato che istituisce il Wto, in particolare sulla opportunità di collegare la liberalizzazione dei commerci ad impegni su livelli minimi di protezione per i lavoratori (la cosiddetta clausola sociale). Le grandi firme dell’abbigliamento fanno produrre le loro magliette in Bangladesh, con un costo di trasformazione inferiore a 100 lire, da parte di donne che lavorano 60 ore la settimana per 50.000 lire al mese. Si fanno campagne contro l’uso di pelli e pellicce, ma non è ancora passata al Congresso americano la legge che proibisce l’importazione di beni fabbricati usando lavoro infantile.
Protezionismo mascherato da moralismo? Ma non è moralismo il timore che sull’altare del libero mercato possa andare distrutto l’intero nostro sistema sociale e riportati indietro di un secolo i rapporti su cui è basata la nostra società. E un discorso analogo si potrebbe fare per l’ambiente, e sostenere la necessità di una «clausola ecologica».
Di fronte alla concorrenza di Paesi in cui il costo della mano d’opera è un decimo della nostra (l’Est europeo) o anche molto meno (l’Asia) le nostre industrie hanno solo tre opzioni: spostare le fabbricazioni in Paesi a minor costo del lavoro; ridurre i costi, cioè comprimere il prezzo dei prodotti acquistati (obbligando i fornitori a delocali7zarsi), diminuire i profitti (ciò che indurrà i capitali a spostarsi), e abbattere i salari (rinunciando al modello sociale europeo); oppure fare un salto qualitativo.
La rivista Foreign Affairs, nel suo numero di gennaio-febbraio, ha pubblicato due articoli, uno a favore e l’altro contrario all’introduzione di un «capitolo sociale» negli accordi commerciali.
Coloro che ne favoriscono l’adozione notano che, consentendo alle grandi multinazionali di alimentare la competizione tra Paesi poveri per attrarre capitali esteri, si delega di fatto un compito politico, quello di assicurare condizioni di lavoro decenti, proprio a quelle multinazionali il cui credo sembra essere il vecchio adagio secondo cui «ciò che è bene per la General Motors è bene per l’America». Ricordano che proprio il New Deal fu accompagnato da una legge (del 1937) che servì ad assicurare migliori salari e più decenti condizioni di lavoro, e, impedendo ai singoli Stati di farsi concorrenza l’un l’altro a salari decrescenti, aumentò il potere d’acquisto e contribuì al boom postbellico.
Protezionismo bello e buono, sostengono invece i contrari, particolarmente in Usa ed in Inghilterra. Citano l’esempio della politica agricola europea, dove i francesi riuscirono a far inserire una analoga «clausola sociale», che oggi divora l’80% del bilancio comunitario e costa ad ogni famiglia europea oltre 2,5 milioni di lire l’anno. Tutta la retorica sulle condizioni dei lavoratori nei Paesi terzi tenderebbe a mantenere in vita un sistema di relazioni industriali bloccato: sarebbe per le rigidità del mercato del lavoro e le eccessive protezioni ai disoccupati se negli ultimi 20 anni l’Ue ha prodotto 3,1 milioni di nuovi posti di lavoro e gli Usa quasi 30, se il costo del lavoro negli Anni 80 è cresciuto in Europa alla media del 4% l’anno e in Usa dell’1 %. In modo più convincente notano che la richiesta di lavoro non qualificato è diminuita costantemente nei Paesi industria, lizzati negli ultimi 20 anni a causa I principalmente del progresso tecnologico, e solo in minima parte per effetto delle importazioni da Paesi a basso costo del lavoro. Sono proprio questi i più grandi mercati di esportazione per i Paesi ad alto costo del lavoro: il 40% delle esportazioni degli Usa e dell’Ue sono verso Paesi non Oecd.
Stiamo vivendo un periodo di transizione: e a chi viene escluso dal mercato del lavoro non si può raccontare che in questo modo il mondo diventa più ricco. Gli aumenti di produttività in agricoltura hanno liberato una enorme massa di mano d’opera: finché questa non sarà stata convertita ovunque a produzioni industriali, la pressione sui salari nel mondo continuerà. La soluzione a lungo termine peri Paesi di più antica industrializzazione è di riuscire ad attirare capitali, comprendendo in questi anche le competenze, per lo sviluppo di nuove attività industriali: quindi puntare tutto sulla formazione, e sulla creazione della mentalità di lungo periodo che promuova l’innovazione. Dunque, sia detto per inciso, non solo sulla creazione di un clima di fiducia, ma anche di stabilità, che non alimenti l’attesa dei facili e provvisori guadagni dell’inflazione.
Il problema, non ci si stancherà di ripeterlo, è strutturale. Anche chi resta tenacemente legato all’idea del libero scambio non può non riconoscere la necessità di politiche di medio periodo che valgano ad ammortizzare gli choc troppo violenti, che distruggerebbero le basi stesse su cui è costruita la nostra società. Non esiste una ricetta unica: proseguire sulla strada di una graduale fiessibilizzazione, studiare forme più mirate di sussidi, ridurre il cuneo fiscale. Senza escludere fmanco la ripartizione del lavoro: infatti, finché la produzione cresce, cresce anche la ricchezza collettiva, e il problema è come ripartirla.
Un uso non ottusamente protezionista della «clausola sociale» potrebbe servire non solo a lenire i nostri sensi di colpa.
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settembre 18, 1994