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L’auto ce l’ha fatta, lo statale ancora no

Pubblicato il 10/10/1994 @ 10:20 in Giornali,La Stampa


Stretta dalla necessità di abbattere i costi, l’indu­stria europea dell’auto ha effettuato, tra il 1991 e il 1993, una massiccia ristrutturazione: tra produttori e fornitori si sono tagliati 500.000 posti di lavoro. La storia di decenni di lotte su cui si è formata l’élite della classe operaia, che furono il banco di prova della grande imprendi-tona di fronte ai problemi socia­li della produzione di serie, ha conosciuto tensioni laceranti, proposte rivoluzionarie: come quella Vw di ridurre orario di la­voro e busta paga. Marche sim­bolo dell’orgoglio di una nazio­ne, come Mercedes, hanno do­vuto cambiare filosofia di pro­getto: non più la migliore tecno­logia possibile, e il prezzo che ne consegue, ma un progetto com­patibile con l’obiettivo di prez­zo.

Anche nei rapporti con i Pae­si dell’Est l’auto sta avendo un ruolo pionieristico: per la produzione di una nuova testata motore la Opel ha chiesto due «offerte» una al suo stabilimento di Bochum in Germania, l’al­tra a una fabbrica ungherese, dove i salari sono il 13% di quelli tedeschi (e ha vinto Bochum grazie alla migliore produttività). Contemporaneamente il prodotto è diventato enorme­mente più sofisticato, vario, ric­co di accessori, sicuro: basta mettersi al volante di una Punto per rendersene conto. Eppure ancora oggi la produttività media delle fabbriche europee (comprese però anche Ferrari e Porsche) è un terzo di quella giapponese, solo mi paio di fab­briche, tra cui Melfi, sono ai vertici mondiali di produttività. E non è finito: nel 1999 saranno eliminate le ultime restrizioni alle importazioni di vetture giapponesi, e l’industria europea dovrà fare un ulteriore sfor­zo che si stima costerà un’ulteriore riduzione di 500.00 posti di lavoro. A prezzo di investi­menti in capitale finanziario, e di sacrifici in capitale umano, si è realizzato un incredibile au­mento di produttività e di valo­re del prodotto: grazie alla con­correnza. E’ questa che ha pro­mosso un gigantesco sforzo che ha coinvolto/sconvolto tecnolo­gie, tecniche di produzione, si­stemi organizzativi, qualità. E analogo discorso si potrebbe fa­re per altre industrie: se si pren­de il caso dell’auto è solo perché questa non può neppure contare su grossi aumenti di volume, né sui continui incrementi presta­zionali della microelettronica.

Di quanto sono variati nel frattempo gli addetti alla pub­blica amministrazione? Quanto costa oggi rispetto a cinque anni fa una patente, un certificato anagrafico, un letto in ospedale, il trattamento di un modulo 740, una raccomandata? Anche se la finanziaria prevede il bloc­co del turn-over e modifiche dell’orario per venire incontro alle esigenze del pubblico, la distanza per raggiungere servizi realmente efficienti sembra an­cora enorme. Se la produttività della PA. non è aumentata tan­to quanto quello dei lavoratori dell’industria, siccome questi diminuiscono di numero, cia­scuno di loro dovrà portare sulle spalle (e nella busta paga) un fardello sempre maggiore. Il ri­schio di cadere nella demagogia è grande: amplissimi settori del­la spesa pubblica sono sottratti per loro natura al vincolo della produttività (come le pensioni); in altri prevalgono aspetti quali­tativi e relazionali (la scuola, ma lì già qualche osservazione la si potrebbe fare). Ma si stenta ad immaginare, tra i dipendenti pubblici, l’analogo delle decine di migliaia di persone che per anni non hanno pensato ad altro che a come eliminare una vite, un passaggio di lavorazione, una fonte di difetti. La tesi è proprio l’opposto di quella de­magogica. Non solo non si vuole mettere da una parte i «buoni» lavoratori dell’industria e dal­l’altra i «cattivi» dipendenti pubblici: al contrario si sostiene che è vano, e quindi in fondo in­giusto, pretendere incrementi di produttività dai dipendenti pubblici finché non li si sia esposti a forze che li spingono a produrli. Se il settore pubblico per sua natura è sottratto alla concorrenza, come utilizzare questa che è l’unica forza che conosciamo per aumentare la produttività, ed evitare di dover invocare solo le categorie morali di buona volontà o di dedizione? Come prevenire il risentimento tra diversi gruppi di cittadini?

Il primo suggerimento è quel­lo di istituire e rendere pubblici , dei confronti: è probabile che i costi (comprendendovi anche il livello di servizio) non siano dappertutto uguali. Anche la pubblica amministrazione è una specie di monopolio naturale: non si può spostare la propria residenza per avere la patente più in fretta. Ma almeno si sap­piano i differenziali di efficienza. (Una cosa analoga succede per l’energia elettrica: la sola di­stribuzione costa ca. 32 L/kh a Milano e più di 80 a Napoli). Ab­biamo un difensore civico: sem­bra più utile un’autorità indipendente dalla PA, che elabori e renda pubblici dati di confronto significativi, «toccabili con marco» da tutti.

La seconda proposta rimanda all’opportunità che la P.A. an­ziché erogare servizi si limiti ad acquistarli e fornirli. Se nei pubblici uffici è impossibile istituire concorrenza, la si istituisca tra fornitori di servizi all’ammini­strazione stessa. Cosa non sem­plice: neppure comprare bene al mercato semplice. La nostra PA non sa comprare servizi complessi, perché non è abitua­ta a ragionare in termini di ri­sultati, ma di gestione del perso­nale, di gradi, di mansionari. Qualcosa si è mosso, parecchio è stato fatto dal ministro Cassese: ma scoraggia il ritmo del cam­biamento rispetto alla vastità del compito. In attesa di una ri­forma globale non possiamo sperare (o temere) che vengano i giapponesi ad elaborare i nostri 740: per questo, i funzionari pubblici possono stare tranquil­li. Ma non sarà indifferente nep­pure per loro se i certificati di immatricolazione li dovessero rilasciare prevalentemente a vetture fatte in Giappone.

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