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Lasciare un segno dopo il terremoto. Cosa vuol dire, come si fa.

Pubblicato il 05/11/2016 @ 10:29 in Giornali,Il Foglio


1349, 1703, 1832: sono le date di (alcuni dei) terremoti devastanti in Umbria. Quello che fa unico e prezioso iI carattere dei paesi colpiti, quello che vediamo distrutto e temiamo di poter perdere, sono le ricostruzioni che le generazioni passate fecero dopo quei disastri. Sono quelle il loro lascito. E noi, che cosa lasceremo alle generazioni future?

Nella ricostruzione di Napoli del 1980, scrive Minopoli, (Le ragioni della ”deportazione”, il Foglio, 3 Novembre 2016) “si incominciò col cedere al ricatto <>, cioè con la decisione di ricostruire le stesse abitazioni negli stessi luoghi”, e si finì con “la mostruosità rappresentata nell’iconografia, nella letteratura e nella rappresentazione contemporanea della malasanità di Napoli: i nomi tristemente noti di Scampia, delle Vele di Secondigliano, del centro antico ponteggiato, di Barra, di Pianura, di Ponticelli”.

Anche adesso il “no alla deportazione”, così spesso pronunciato anche dal presidente del Consiglio, è “rassicurante ma può essere fuorviante”. Fuorviante perché riduce il problema del dopo terremoto al ripristino, quanto più è possibile, dello stato precedente il sisma. Sarebbe paradossale se, dopo avere cercato di portare in tribunale i sismologi rei per non aver saputo prevedere i fenomeni, oggi non si prendesse coscienza di quello che la scienza indica con precisione, e cioè che “la sismicità italiana non è un insieme, variegato e randomico, di territori a rischio” (ancora Minopoli), ma che il Paese “ch’Appenin parte” è il luogo dove si scaricano le energie sviluppate dalla subduzione della placca europea a quella africana. Viene spontanea l’analogia con le migrazioni: sono dell’Italia la maggior parte delle coste europee che si affacciano all’Africa.

Questa è l’Europa: nel senso che entrambi i fenomeni – il sisma come le migrazioni – fanno parte della geografia dell’Europa. E fanno parte della sua storia: è (anche) per le radici storiche che i recenti terremoti sono una ferita non solo per l’Italia ma per l’Europa. Quelle città e quei borghi, quei castelli e quelle chiese parlano di Papi e di Imperatori, di invasioni e migrazioni: hanno visto gli scontri in cui si è formata l’Europa moderna, quella degli stati-nazione. Dobbiamo prima capirlo noi, per poterlo poi far capire a tutti. Non per trarne spunto per chiedere all’Europa dell’Unione qualche decimale (o qualche intero) in più rispetto al vincolo di bilancio: potrebbe essere rassicurante ma sarebbe fuorviante, anzi riduttivo. Qui non si tratta solo di gestire l’emergenza, ma di pendere atto del cambiamento quale risulta dalla nuova mappatura sismologica del territorio. Per l’alluvione di Firenze e l’inondazione di Venezia si trattava di riparare danni, e si mosse il mondo. Per i terremoti dell’Umbria si tratta di progettare un futuro: è un impegno diverso, e lo possiamo soddisfare solo noi.

Alle tentazioni del “no deportazioni” bisogna opporre un’ambizione: fare dopo questo terremoto quello che le generazioni passate hanno fatto dopo i loro terremoti. A noi si chiede di lasciare il segno di come si costruisce, si vive, si lavora, si comunica in regioni che hanno quelle caratteristiche sismiche; si chiede di rispondere con le realizzazioni della tecnologia alle rivelazioni della scienza.

Ovunque possibile i manufatti di valore artistico dovranno essere restaurati e ricostruiti; e così pure quanto di case, opifici e strade necessiti per non perdere il fascino di quei borghi. Ma per il resto, invece degli orrori con cui abbiamo rovinato tanta parte del nostro paese, dobbiamo fare qualcosa di cui poter andare orgogliosi. Non stupire con gli archistar, non consolare con gli artisti, non l’ennesimo concorso internazionale, (abbiamo eccellenze nostrane che sarebbero felici di raccogliere la sfida); non la razionalità di Pienza, nè il razionalismo di Latina, nè il costruttivismo delle new town. Qui si ha il vantaggio di non creare qualcosa nel vuoto. Quei luoghi raccontano anche dell’individualismo, che tanta parte ebbe del successo dell’Occidente: anche i progetti urbanistici dovranno essere occasioni di libertà di scelta dei singoli. Dovranno essere consoni ai modi di stare insieme, di lavorare e comunicare in cui si vive oggi: per interpretare il presente, tra un passato da conservare e un futuro da inventare.

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di Umberto Minopoli – Il Foglio, 03 novembre 2016

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