L'abbaglio inglese

settembre 26, 2006


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

sole24ore_logo
“Una cosa nota, perché nota, non è conosciuta”. La frase di Hegel ben si adatta alla discussione sulla separazione societaria della rete fissa di Telecom, dove la cosa nota è che questa sia la strada maestra, e che l’Inghilterra l’abbia adottata. Nota ma non conosciuta. Perché è vero il contrario: questa non é la strada maestra e l’Inghilterra non l’ha adottata.

Che un Paese intero, autorità e governanti in testa mostri di credere in questa fallacia, oggi che grazie a Internet tutte le informazioni sono a un cliccare di mouse, ha dell’incredibile, e merita non solo una rettifica, ma l’analisi delle cause che la rendono possibile.

Ciò di cui si parla è “l’ultimo miglio” o “local loop”, il doppino di rame che parte dall’ultima centralina Telecom ed entra in tutte le case e in moltissimi uffici. Un’infrastruttura difficilmente duplicabile: la penetrazione di nuovi gestori di rete (come Fastweb) che installano la fibra ottica è limitata, e il collegamento via radio (WiFi e Wimax) solo col tempo e in parte sostituirà il doppino. Un monopolio naturale (a differenza del resto della rete fissa) che produce rendite e distorce la concorrenza. Il doppino può consentire il collegamento con banda larga, servizi pregiati per gli utenti, maggiori margini per i fornitori. Conquistare un cliente nuovo è più facile che convincerlo poi a cambiare fornitore: bisogna risolvere il problema prima che il monopolista estenda anche alla banda larga la sua posizione dominante. Bisogna separare il monopolio naturale dall’operatore dominante.

La separazione può essere verticale (strutturale, o societaria); oppure funzionale (organizzativa). L’OCSE, nel Novembre 2003, facendo un bilancio tra i costi certi e irreversibili della separazione verticale e i benefici incerti che potrebbe portare, raccomanda di scegliere la strada della separazione funzionale, che imponga all’operatore dominante modifiche organizzative e regole di comportamento. Un approccio sostanzialmente confermato nel Maggio 2006 dalla Conferenza internazionale delle autorità Antitrust. Il regolatore inglese Ofcom, nel Novembre 2004, a 20 anni dalla privatizzazione, apriva una pubblica consultazione sulla propria strategia, concentrandosi su 5 punti, l’ultimo dei quali era proprio l’alternativa tra separazione strutturale o organizzativa. Dopo 14 mesi di discussioni, nel Gennaio 2006 annunciava la costituzione di Openreach, unità organizzativa all’interno di British Telecom e da quella separata da una serie di “pareti cinesi”. Un rapporto trimestralmente dà conto di come vengono via via realizzati più di un centinaio di impegni.

In Italia invece, per l’opinione pubblica la separazione o è societaria o non è, ma allora può essere proprietaria, e quindi deve essere di proprietà pubblica. Il convincimento è talmente forte che si proietta oltre i confini nazionali, l’Inghilterra diventa il modello di quello che non ha fatto. Cadono nell’errore giornalisti seri, lo ripetono personaggi politici, perfino il Presidente dell’AGCOM manifesta incertezze (intervista al Sole 24 Ore del 9 Giugno).

Torna l’intervento statale
Intanto merchant bank calcolano il valore della società (dei risultati di uno di questi studi ha dato notizia anche il Sole 24 Ore), banchieri lo infilano come la cosa più naturale del mondo nel famigerato piano Rovati. E quando su quel documento si scatena la bufera, è per l’ingerenza politica negli affari di un’azienda privata, o per lesa collegialità di governo, o per la ripubblicizzazione di un ramo d’azienda. Nessuno che l’abbia criticato in nome di un indirizzo regolatorio che farebbe dell’Italia sarebbe l’unico Paese ad averlo adottato. Dove sono i convegni scientifici, le pubbliche consultazioni, le simulazioni economiche e di mercato che suggeriscono un intervento radicale e irreversibile sulla “infrastruttura strategica”? Quanti sono insorti contro la spensieratezza con cui viene avanzata una simile proposta?

Un errore così diffuso deve avere una ragione profonda. Ci sono gli interessi: per le banche d’affari e gli uffici legali operazioni societarie e vendite significano laute provvigioni; per le società di consulenza più lungo è il processo più rotonda la parcella; anche Telecom che ha tutto da guadagnare da un processo che allunghi i tempi. Per il Governo e la politica, mettere le mani su una rete che entra in 20 milioni di case, apre la prospettiva di possedere un altro broadcaster con cui rinverdire i fasti della Rai.

L’Authority tuttofare
Ma è il favore per l’intervento statale il terreno di cultura di questo errore, un pregiudizio capace di sopravvivere perfino alle performance della nostra Pubblica Amministrazione. E’ ancora il retaggio del duplice primato, essere stati il Paese occidentale con il più grosso partito comunista e con la maggiore quota di reddito nazionale intermediata dallo Stato, nonostante i 15 anni da quando si è iniziato a smantellarli? La fiammata liberalizzatrice degli anni migliori del primo Ulivo si è presto spenta, e ora subentra una riflessiva controriforma. C’è bisogno di mettere ordine: una platonica idea che contenga tutte le fenomeniche fattispecie di rete, dai binari dei treni alle apparecchiature UMTS, dunque una autorità unica che tutte le controlli, dunque una istituzione pubblica che tutte le possieda. Per lo statalismo volgare, sono le brache di un disegno facile e simmetrico; per chi non si fida delle capacità di autoregolazione e nella sua inesauribile capacità di scoperta del mercato, e preferisce invece controllare dal centro, è la giustificazione per semplificare e ordinare, e, se necessario, sorvegliare e punire. Da questo punto di vista la suggestione – che circolava da tempo e che il piano Rovati ha raccolto – di “scambiare” la soluzione dei problemi finanziari della catena Telecom, con la nazionalizzazione di un asset strategico, non è una novità nel nostro panorama. Soccorso finanziario, gli snodi in mano alla politica, l’italianità come vincolo e come protezione: anche questa è una rete. I rapporti tra politica e industria vi sono spesso restati impigliati.

ARTICOLI CORRELATI
Un esempio che non c’è
di Franco Debenedetti – La Repubblica, 9 dicembre 2006

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: