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La via del futuro per TIM

Pubblicato il 04/01/2023 @ 09:20 in Giornali,Il Foglio


di Franco Debenedetti e Francesco Vatalaro

“Il Governo”, ha detto la premier Giorgia Meloni nella conferenza stampa di fine anno, “si dà il duplice obiettivo di assumere il controllo della rete e di lavorare il più possibile per mantenere i livelli occupazionali. Il resto lo lasciamo alla dinamica libera del mercato”.
Dovrebbe essere la parola definitiva: ma definitivo è sempre una parola grossa. Tanto più parlando di TIM, come vedremo.

La separazione della rete era già stata annunciata nello scorso luglio; ma non è mai stato deciso un perimetro preciso dell’infrastruttura da scorporare: solo rete di accesso, primaria e secondaria, oppure anche il trasporto che sta a monte? A forza di metafore balorde (la rete telefonica come le autostrade, chi le gestisce non è chi fabbrica le automobili), di ambizioni personali (governare un’unica società delle reti, gas, elettricità, telecomunicazioni), di superficialità (se siamo indietro nella velocizzazione della rete, basta tornare al monopolio e dare soldi, così diventeremo forti come quelli che avevano già la rete TV via cavo), il tutto condito da nazionalismo becero (un’infrastruttura essenziale deve essere dello Stato, altrimenti ce la possono portare via) e da terrorismo psicologico (i dati dei cittadini finiranno in balia di potenze straniere che attentano alla sicurezza dello Stato), si è costruito un assioma indiscusso: la rete “unica-pubblica-separata-non controllata da una Telco”.

E invece da discutere ce n’è eccome: se sono sorte milioni di app, che hanno prodotto un nuovo settore industriale e modificato il modo di operare di quelli già esistenti, è perché qualcuno ha fornito, a loro e ai loro clienti, la connettività. E questo qualcuno in Italia è stata in primo luogo la TIM e con lei le altre imprese concorrenti che, grazie alla sua privatizzazione, sono sorte in Italia più numerose che in qualsiasi altro Paese europeo, dando al nostro Paese le tariffe più basse in Europa. Le società di telecomunicazioni stimolano la crescita dell’economia B2C (business to consumer): eppure, come osserva un paper di McKinsey del 15 novembre 2022, (“Thinking like a ‘Serv.Co’: how telcos can drive B2C growth”), le imprese di telecomunicazioni hanno trattenuto ben poco delle enormi ricchezze che si sono prodotte grazie al loro contributo. E non solo in Italia: in tutta Europa le performance di Borsa delle Telco sono inferiori alla media di mercato. Perché?

Le cause principali sono due. La prima è un problema strutturale e culturale comune a tutte le Telco: la divaricazione fra la creazione del valore e la cattura del valore, che fa sì che a loro sfugga in gran parte la ricchezza che hanno contribuito a produrre. Da sempre le Telco promuovono l’innovazione di prodotto (ad esempio dal 2G al 5G, dal rame alla fibra, e così via) ma trascurano l’innovazione dei modelli di business, ancorate come sono alla mera connettività. In questo modo si genera una forte esternalità verso i clienti, da un lato, e verso gli OTT, dall’altro: tutto valore che le Telco distribuiscono.

La seconda causa, valida in Europa e non negli USA, è la frammentazione con aziende troppo piccole e una forma di concorrenza sul prezzo che le rende asfittiche e incapaci di generare ricavi e utili a sufficienza: da questo deriva la fuga dei capitali verso settori più redditizi e di conseguenza la difficoltà ad investire in nuove infrastrutture. In Europa, calcola McKinsey, ci sono 87 provider con più di un milione di abbonati ciascuno; in America solo 16. È quindi probabile che si sia alla vigilia di un processo di consolidamento. Come arriverà l’Italia a questo appuntamento? Una TIM in cui si fosse proceduto alla separazione di rete e servizi – un’operazione fatta solo da Nuova Zelanda e Australia, con pessimi risultati la seconda, appena mediocri la prima – sarebbe diversa da tutte le altre, dunque emarginata o, peggio, assorbita da parte dei grandi gruppi continentali o globali. Un esito opposto a quello auspicato dai sostenitori del primato dello Stato nelle telecomunicazioni italiane.

Separare le operazioni di rete da quelle rivolte ai clienti, affidando le prime a una NetCo, e cedendo le seconde a una ServCo, con l’obbiettivo di attrarre più facilmente investimenti di lungo periodo per l’espansione delle reti, può rivelarsi illusorio. Se si separa la rete, aumentare la crescita e il valore della ServCo diventa una questione esistenziale: infatti la separazione ha un effetto devastante sulla redditività delle restanti attività sui servizi. Da quando è incominciata a circolare l’idea di separare rete e servizi, anche solo il buonsenso induceva a pensare che sarebbe stata la rovina di TIM. Lo studio della McKinsey su una Telco tipica lo quantifica in modo impressionante: senza il contributo dei profitti di rete, il margine EBITDA della società dei servizi si abbatte dal 30-40% al 5-15%.

Ma anche se si abbandonasse la sciagurata idea che parrebbe radicata in Italia, la Telco integrata dovrebbe adottare la mentalità di una ServCo per rinvigorire la crescita, ridurre la base di costo e trovare il modo di espandere il perimetro delle attività. Alcune aziende ci sono riuscite, e il paper di McKinsey indica i modi: tutti presuppongono di disporre dei dati, ovviamente anonimizzati, che sono un patrimonio direttamente accessibile solo se si controlla la rete. L’integrazione rete-servizi può consentire il salto di qualità verso una data-driven company, cambio di paradigma essenziale per accrescere la cattura del valore. Nel nuovo modello d’impresa, i dipendenti sfruttano i dati nel loro lavoro regolarmente e in modo naturale; le attività e le decisioni di routine sono automatizzate e le organizzazioni si concentrano sulle decisioni da prendere, mentre reti di dispositivi raccolgono e trasmettono dati e analisi, spesso in tempo reale; l’intelligenza artificiale abilita lo sviluppo di nuove capacità e la scoperta di nuove relazioni nei dati per guidare l’innovazione; i team aziendali mirano all’ideazione di nuovi modi d’uso dei dati nello sviluppo di una strategia aziendale sempre più efficace nelle interazioni con il cliente e nella generazione di nuove forme di monetizzazione dei servizi.

Se questa è la Telco del futuro (ma già oggi se ne cominciano a vedere i primi esempi), accrescere la base della generazione dei dati e la varietà delle loro applicazioni diventa la chiave del successo. Ci sono due strade non in conflitto fra loro: potenziare l’integrazione orizzontale (più ampia generazione dei dati) e quella verticale (estensione delle applicazioni dei dati). Negli USA si sono già presentati esempi dei due modelli di sviluppo senza che la Federal Communications Commission (FCC), il regolatore equivalente alla Commissione europea, li abbia contrastati.

AT&T nel 2018 procede a un’importante integrazione verticale, acquisendo il colosso dei contenuti Time Warner e riuscendo a dimostrare in Tribunale, dopo una battaglia legale con il Department of Justice, che i benefici sociali dell’integrazione verticale superano gli svantaggi.
Poi nel 2020 T Mobile US, controllata da Deutsche Telekom e cresciuta da piccola startup nei primi anni 2000 fino a divenire il terzo operatore statunitense, acquisisce Sprint Corporation, al tempo il quarto operatore, assorbendolo e eliminando il marchio dal mercato. La fusione orizzontale, ricevuta l’approvazione del DoJ, della FCC e di diversi procuratori generali statali, ha condotto al primo operatore di telecomunicazioni al mondo per capitalizzazione (52° posto nella Top-500 con Market cap di 169,35 $ billion), sopravanzando sia AT&T che Verizon.

Ecco, quindi, le principali ragioni per cui i cosiddetti “punti fermi” della discussione in seno al governo sul futuro di TIM (e Oper Fiber) sono sbagliati.

1. Nel caso di un consolidamento delle Telco europee, essendo ad ogni evidenza improbabile che TIM, e tanto meno Open Fiber, possano essere gli integratori,
è necessario che TIM si presenti tutta intera e rafforzata ai possibili partner: quindi, come loro, con la propria rete integrata. Inoltre, in nessun posto in Europa lo Stato ha il controllo e solo in pochi casi ha una partecipazione di minoranza: il controllo dello Stato renderebbe TIM esclusa dalle future partnership europee.
2. La separazione della rete renderebbe ancora più critica la già ridotta redditività dei servizi di TIM; perderne il controllo renderebbe impossibili le nuove attività da cui dipende il suo miglioramento.
3. La rete unica, cioè la fusione di TIM e Open Fiber, peggiorerebbe la redditività sia della NetCo sia della ServCo. Open Fiber apporterebbe i propri debiti e, quanto alla rete, nelle aree urbane è un doppione di quella di TIM, mentre nelle aree bianche è in ritardo, incompleta e realizzata con standard incompatibile. TIM bisogna che migliori prioritariamente i suoi parametri economici sul versante dei ricavi. Open Fiber, se necessario con l’aiuto temporaneo dello Stato che l’ha voluta, deve diventare una Telco a pieno titolo in grado di vendere al cliente finale i suoi servizi, per poi essere ceduta al mercato. Solo così si può pensare di salvare entrambe.

Tornando al paper di McKinsey, è utile riflettere sulle tre leve che propone per aumentare ricavi e margini EBITDA dell’attività B2C, compreso il costo reale della NetCo.

Prima leva: aumentare la redditività della connettività. Ciò può avvenire con una strategia di aumento dell’ARPU (ricavo medio per utente) attraverso la gestione del valore del cliente e la riduzione dei costi di rete: entrambi gli obiettivi sono conseguibili con l’edge-computing.

Seconda leva: trovare nuove fonti di reddito oltre alla connettività. Con offerte verticali in settori adiacenti, tipo assicurazioni e sicurezza; oppure creando un ecosistema di aziende con una piattaforma comune che consenta di accedere a una serie di prodotti e servizi digitali, dalla sicurezza alla telemedicina.

Terza leva: scalare i successi ottenuti con la prima e la seconda leva su piattaforme che si estendano geograficamente, comprando connettività da NetCo locali, con ulteriori economie di scala, monetizzazione dei dati, e maggiore potere negoziale con altri partner digitali.

Se si riposizionano come piattaforme digitali, le Telco godranno di un rating migliore. Oggi è circa quattro volte l’enterprise value, mentre quello degli operatori integrati con ecosistemi digitali è circa dieci volte. Vediamo più in dettaglio come questo si può ottenere.

Quanto alla prima leva, i clienti oggi danno per scontati connettività affidabile e bassi costi, esigono esperienze commerciali e operative fluide, interoperabilità tra fisso e mobile per un numero crescente di device. Fare queste offerte personalizzate, richiede un rapporto continuo con il cliente. La battaglia si gioca sulla customer experience: tariffe semplici, interazioni amichevoli, modelli che automaticamente rimborsano per guasti e disservizi, programmi fedeltà (tutti aspetti in cui le Telco sono distanti anni luce dagli OTT). Passando da esperienze di vendita e di assistenza tecnica manuali a canali digitali meno costosi perché automatizzati dall’intelligenza artificiale, le Telco possono ridurre significativamente i costi di vendita e aumentare la qualità dell’offerta. La compagnia indonesiana Teknomsel, esemplifica McKinsey, ha lanciato una piattaforma per nativi digitali che consente di selezionare una SIM prepagata che viene recapitata a casa, di attivare il numero da remoto, di gestire le ricariche e fare pagamenti: tutto questo in modo friendly ed efficiente. In 15 mesi il sito ha raggiunto quasi 2 milioni di abbonati ed è riconosciuto come modello di customer satisfaction.

Quanto alla seconda leva occorre capire come produrre nuovi flussi di ricavi oltre a quelli da connettività. Le Telco sono posizionate strategicamente per intercettare flussi di ricavi addizionali. Il 56 % dei clienti europei dicono che comprerebbero volentieri altri servizi dai loro provider di telecomunicazioni: allarme di casa, assicurazione sulla casa, servizi finanziari, servizi medici, ecc.

Le Telco che controllano le proprie reti possono fruire di informazioni su abitazioni, merito di credito, accesso alle case, e possono autenticare i clienti. In Norvegia Telenor ha introdotto il prodotto SAFE per fornire protezione contro furto di identità e dei dati: lanciato nel 2020 ha già 300.000 clienti che pagano 13$ al mese. Ha integrato SAFE nella sua app per facilitare accesso e pagamenti. Sostiene di avere così aumentato la fedeltà dei clienti; dal 2017 al 2020 le vendite in settori adiacenti producono i due terzi del ricavo medio per utente. In Spagna Telefònica ha acquistato metà di Prosegur, la più importante azienda spagnola di sicurezza domestica: insieme offrono interventi 24/7 in risposta ad allarmi. L’iniziativa ha apportato un aumento della sua base clienti di sicurezza a 406.000 dal lancio, e una crescita annua del 60% nella prima metà del 2022. Tuttavia, l’antiquata cultura industriale è sovente un ostacolo nel lanciare nuovi business. E qui interviene la terza leva proposta da McKinsey.

In Europa gli operatori Telco hanno cercato di aumentare i ricavi sviluppando al proprio interno le nuove offerte. Invece in altri Paesi hanno avuto successo nello sviluppare ecosistemi che integrano servizi di altre imprese perché gli operatori telco rappresentano un interessante canale di distribuzione dei loro prodotti. In Giappone DOCOMO ha costruito un solido ecosistema che offre contenuti digitali, esperienza sanitaria, servizi finanziari e vendita di prodotti, e che nel solo 2021 ha apportato un aumento del 23% dei suoi ricavi. Questo operatore persegue costantemente l’innovazione nella customer experience e nel 2021 vantava il maggior numero di brevetti nel settore dell’intelligenza artificiale in Giappone. Investimenti strategici e joint-venture hanno consentito di espandersi in nuovi settori verticali: servizi medici e telemedicina con Genova Diagnostics e Omron, consegne a domicilio con ORIX, consulenza finanziaria basati sull’intelligenza artificiale con Theo. Infine, integra servizi video di DAZN, Disney+ e Kijari TV.

Si diceva prima della frammentazione del mercato europeo delle Telco. Ma mentre le NetCo separate rimarranno sostanzialmente locali, perché possiedono asset fisici che non possono espandersi in nuovi mercati, le operazioni B2C delle Telco integrate possono espandersi geograficamente alleandosi con NetCo locali per offrire servizi pregiati. Il processo potrebbe incominciare con l’integrazione delle divisioni nazionali di operatori pan-europei. Secondo McKinsey, se il mercato europeo fosse servito da un totale di 16 piattaforme B2C, come negli USA, sarebbe possibile un risparmio di più di 5$ billion all’anno. Questa è la potenza della leva numero 3: integrare l’ecosistema tra diversi mercati attraverso l’espansione a settori adiacenti e ad aree geografiche diverse.

Si tratta di cambiamenti importanti che riguardano anche la cultura aziendale, quella dei dipendenti e le modalità di interfacciarsi con i clienti. Ma quello che più rileva è che tutti questi cambiamenti presuppongono di avere accesso alla rete, non solo per disporre dei dati necessari per sviluppare i nuovi business, ma anche per potere operare sulle interfacce con i clienti. Una netta separazione operativa, e ancor più una separazione societaria, rischia di rende impossibili, o troppo costosi, quei cambiamenti necessari per trovare nuove fonti di reddito così da aumentare la redditività aziendale.

L’integrazione verticale in Italia è oggi una realtà, anche a non considerare TIM: diversi operatori B2C hanno proprie reti fisse nelle aree urbane e da tempo le reti mobili sono concorrenziali anche sui dati e quindi sulla fornitura dei contenuti. Ciò consente una concorrenza tra modelli di business diversi e tra imprese più o meno integrate. Inoltre, la concorrenza tra infrastrutture consente la sperimentazione di tecnologie diverse e riduce il rischio che l’intera infrastruttura del Paese rimanga dipendente da una sola scelta tecnologica, rischio particolarmente alto in una fase di grande sviluppo come quella attuale.
Vale in Europa, persino di più in Italia.

Le imprese Telco, quindi, per crescere devono avviare un percorso di trasformazione digitale, senza rinunciare al loro asset strategico: la rete. Integrazione rete-servizi, nuovi modelli di business, imprese data-driven: queste le parole d’ordine per uscire dalla crisi e ricominciare a crescere.

Ritorniamo da dove eravamo partiti: la conferenza stampa in cui la premier Giorgia Meloni dichiara che il suo Governo “si dà il duplice obiettivo di assumere il controllo della rete e di lavorare il più possibile per mantenere i livelli occupazionali. Il resto lo lasciamo alla dinamica libera del mercato”. Posto che in un’economia di mercato, i livelli occupazionali dipendono per definizione dalla sua libera dinamica (nazionalizzare per non licenziare lo faceva la GEPI), quello a cui il Governo deve “lavorare il più possibile” è evitare contraddizioni tra questo obbiettivo e quello di “assumere il controllo della rete”. “Controllo” può voler dire molte cose, non necessariamente coincide con “proprietà”. Come abbiamo visto, la condizione per cui le Telco possono crescere e far crescere l’ecosistema delle app che esse innervano con la loro connettività, è diventare delle data-driven companies, e questo è strettamente dipendente dal contenuto che pubblico e privato, governo e azionisti, italiani e stranieri, daranno alla parola controllo. Non è un problema per le altre Telco europee nate dagli ex monopoli pubblici: tutte “controllano” la loro rete senza possederla. Non si vede perché debba esserlo per TIM.

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