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La terza globalizzazione dei talenti

Pubblicato il 17/06/2022 @ 12:20 in Giornali,Il Foglio


Dopo i motori a vapore e internet, oggi c’è una “telemigrazione” di persone che sta cambiando faccia al mondo del lavoro e delle idee

Tra il 1820 e il 1990 la quota di pil dei paesi del G7 era passata dal 20 per cento a quasi il 70 per cento del pil mondiale; da allora è ridiscesa al 50 per cento, circa il livello che aveva nel 1900. Questa inversione di tendenza indica che una nuova e diversa forma di globalizzazione è succeduta a quella precedente. La prima era dovuta ai motori a vapore che avevano abbattuto i costi per il trasporto di merci, la cui domanda era cresciuta con la pace dopo le guerre napoleoniche. La seconda globalizzazione è avvenuta quando internet ha abbattuto i costi per trasferire le idee da un paese all’altro. La prima favoriva la delocalizzazione di produzioni su larga scala in un ristretto numero di paesi, dove poi si aggregavano localmente, al fine di ridurre i costi di coordinamento. La seconda entra dentro l’impresa e ne disperde le singole attività tra diversi paesi: nascono le catene del valore globali. Oggi non c’è nessun prodotto che possa dirsi interamente “nazionale”. Per converso, come dimostrano le sanzioni alla Russia per l’invasione ucraina, nessun paese è autosufficiente, l’espulsione dal commercio internazionale può essere letale.

Nella prima globalizzazione si trattava di prodotti finiti, tipico l’automobile (pensiamo alla Fiat a Togliattigrad o a Belo Horizonte), sfruttando i vantaggi comparati del paese (i bassi costi del lavoro) per vendere più beni all’estero; nella seconda è trarre il massimo guadagno dalla vendita del proprio know-how: “The Great Convergence”, come Richard Baldwin chiama la globalizzazione prodotta dalle tecnologie dell’informazione.

Parallelamente cambia anche la natura dei rapporti legali: nella prima erano i paesi a garantire le condizioni per il buon funzionamento dell’impresa. Nella seconda sono le singole imprese locali a stipulare accordi, a volte cementati da una partecipazione azionaria; gli stati hanno “solo” liberalizzato commercio, investimenti, movimenti di capitali, servizi, proprietà intellettuale.

Nonostante da un paio di secoli i vantaggi della globalizzazione siano dimostrati teoricamente e verificati empiricamente, essa trova nemici sia nei paesi che la “importano” sia in quelli che la “esportano”. Nei primi per motivi culturali e politici: insieme alle tecnologie si trasferisce cultura, per produrre in modo efficiente un oggetto bisogna sapere a che cosa serve e come verrà usato, e quindi la mentalità di chi lo userà. Questo è visto come un pericolo: le questioni di genere da parte dei custodi delle tradizioni patriarcali, la libertà di parola da parte di chi detiene il potere.

Nei paesi che delocalizzano ci sono state conseguenze politiche di prima grandezza: sia chi ha contribuito alla vittoria di Trump sia chi ha sostenuto la Brexit vogliono che ci si riappropri del valore dei beni riportandone a casa la produzione. Ma individuare i settori che cresceranno è difficile, anche per questo ci vogliono nuove politiche: dell’istruzione, perché i ragazzi imparino a imparare, saranno impegnati a un’istruzione a vita. E del lavoro: per rendere più facile ai lavoratori di adattarsi a nuovi mestieri, proteggere loro non i posti di lavoro.

Da oltre due secoli si sa che le nazioni diventano ricche se impiegano le loro risorse per fare le cose che sanno fare meglio di altri. Paesi come Stati Uniti e Regno Unito sono diventati ricchi innovando, non inseguendo paesi che si arricchiscono solo perché hanno salari bassi. E tanto meno “proteggendo” le produzioni nazionali con dazi che graveranno sui consumatori; o imponendo regole che ne facciano un monopsonio, riducendo la concorrenza e quindi la spinta a innovare.

Oltretutto la battaglia per difendere i prodotti è una battaglia di retroguardia: nei paesi avanzati già l’80-90 per cento delle persone e le aziende con la maggiore capitalizzazione del mondo, lavorano nel settore dei servizi. Sono diventate il simbolo della civiltà capitalistica.

Come la pandemia ci ha insegnato, c’è una nuova fase della globalizzazione, che Baldwin chiama “telemigrazione”, fatta da gente che sta in un paese e lavora in uno o più altri. Medici indiani che esaminano lastre radiografiche di un ospedale europeo, ma anche un avvocato di Londra o un finanziere di New York che vendono le loro consulenze in giro per il mondo. Anche “vendere” progetti di impresa può diventare un’impresa: Upwork offre a persone di talento la possibilità di partecipare a un progetto che li stimola e viceversa a chi ha un’idea di trovare le persone con le caratteristiche adatte, in tutto il mondo. Una specie di cloudsourcing di progetti e di persone, che qualcuno vede come la terza globalizzazione.

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