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La solita solfa delle politiche industriali e il modello FabLab

Pubblicato il 06/02/2014 @ 08:55 in Giornali,Huffington Post


“ll movimento dei makers si va diffondendo” scriveva Huff Post. Pochi sanno che in Italia ci sono decine di migliaia di persone coinvolti nella digital fabrication, che le FabLab stanno nascendo ovunque in Italia. Ma basta guardarsi in giro per capire che le persone lavorano, comunicano, si aggregano, sono motivati in modi diversi, perfino agli antipodi di quelli dei tempi della politica industriale.

“È la mancanza di politica industriale!” dice invece Romano Prodi (Corriere della Sera di Domenica) ad Aldo Cazzullo che gli aveva chiesto perché l’Italia fosse “il grande malato d’Europa”. Frase importante, affermazione pesante detta da uno come lui, che oltretutto da presidente dell’IRI ha gestito e da Presidente del Consiglio ha poi smantellato la più grande realizzazione di politica industriale d’Italia e forse del mondo occidentale. La frase è popolare, raccoglie e legittima un sentimento diffuso: ma punta nella direzione sbagliata.. Non solo non è vero che la mancanza di politica industriale sia la causa dei nostri problemi ma, al contrario, è il pensarlo che fa parte dei nostri problemi, è il dirlo che li acuisce.

Politica la fa il Governo, quella industriale la attua il Ministero, che ora non si chiama più dell’industria ma, con qualche ottimismo, dello sviluppo economico. Prendiamo i nomi degli ultimi Ministri. Osservate, leggete con me: Antonio Marzano, Claudio Scajola ( 2 volte) Pierluigi Bersani, Paolo Romani, Corrado Passera, Flavio Zanonato. Tutte degnissime persone: ma comprereste una politica industriale da uno di loro?

Politica industriale, si dice, la fanno le industrie, meglio se grandi, perché più potenti, meglio se pubbliche, perché più manovrabili. Le cronache riportano le difficoltà per sceglierne i capi, e quando poi le cose non vanno per il loro verso, svelano quali compromessi e quali interessi fossero all’origine di molte di quelle nomine. E anche se alcune sono degne e capaci persone, è a un processo di selezione di questo genere che ci affidiamo per realizzare una politica industriale?

Impossibile progettarla, impossibile attuarla, la politica industriale finisce per essere il “bello e impossibile”: un mito che rende più arduo o più lungo risolvere le situazioni difficili (vedi Riva e Electrolux), che induce a dare addosso a chi dalla situazione difficile sta cercando di uscire e da solo (vedi FIAT) , che fa passare per successo riuscire ad essere gli apriporta in Europa agli emiri (vedi Alitalia). La migliore politica industriale sarebbe di non parlarne.

“Il problema, dice Prodi, non è il costo del lavoro, in Germania è superiore del 50%. Il problema è il modo in cui si lavora”. Se cresciamo da vent’anni meno del resto d’Europa, è perché siamo meno competitivi. Se lo siamo nonostante un costo del lavoro pari a 2/3 di quello tedesco, è perché usiamo i fattori della produzione talmente male che non basta neppure quel vantaggio a compensare.

Per la mancanza di “politica industriale”? O non piuttosto per la paralisi istituzionale, per la debolezza dei governi, per le leggi incomprensibili, per la burocrazia autoreferenziale, per gli sprechi e le lungaggini, per un fisco oppressivo e ottuso, per tutto quello di cui quotidianamente facciamo esperienza, e di cui quotidianamente leggiamo le analisi? Parlare di mancanza di politica industriale è offrire un bersaglio facile per distrarre dalla mancanza di politica senza aggettivi: quella che liberi le energie e restituisca risorse a tutte le attività, industria, servizi e, perché no?, agricoltura.

E che lasci tranquilli i maker nelle FabLab: per partita IVA e TUSL, ripassare più tardi.

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