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La sinistra e quell'idea di una società che non c'è

Pubblicato il 10/05/2008 @ 17:29 in Giornali,Il Sole 24 Ore

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Dopo il 13 aprile

“What is left?”, l’interrogativo che assilla la sinistra da quasi vent’anni, scuote il Pd nelle sue fragili fondamenta. La destra, per Sandro Bondi (Corriere della Sera del 7 maggio), neoministro dei Beni Culturali, è sinonimo di innovazione. Non lo so. Il tasso d’innovazione della politica, nonostante il 13 aprile, è sempre largamente inferiore, specie in Italia, a quello della società che deve interpretare. Ma certamente la destra è sinonimo di cambiamento. Vuole cambiare. E, aspetto paradossale, a volte quello che vuole cambiare lo addossa alla sinistra.

Siamo costretti a cambiare, sostengono i suoi esponenti, perché la sinistra fa in tutt’altro modo (nel mercato del lavoro, nella sicurezza, nell’immigrazione).

La sinistra ha pagato, e caro, tutti i suoi errori, senza dare fino in fondo retta ai pochi riformisti e liberali del suo schieramento. Ha pagato più per quello che ha fatto credere di voler fare che per quello che ha realmente fatto, cioè poco, pochissimo. Ha pagato il permanere sotto traccia (non si diventa di colpo liberali per folgorazione sulla via di Damasco) dei residui ideologici del ’68, mai veramente finito (come testimoniano le estenuanti celebrazioni che ai giovani non dicono nulla, o quasi). Ha pagato per aver sottovalutato il tema della sicurezza (che riguarda i meno abbienti, gli strati popolari e operai che hanno per esempio al Nord votato Lega); e per un’idea ossessiva, più punitiva che redistributiva, della tassazione. La globalizzazione non l’ha certo inventata Prodi, ma nell’immaginario collettivo è il frutto elitario dell’incontro fra la grande finanza e un milieu intellettuale in larga misura di sinistra; il centrosinistra non è stato iperliberista, eppure a tratti lo è sembrato per entusiasmo modernista e ingenuità tattica. E mentre Rifondazione affondava la liberalizzazione dei servizi locali, Di Pietro bloccava Autostrade e Rovati studiava (maldestramente) il dossier Telecom. Infine, anche per non essere troppo spietati con i perdenti, la sinistra paga la sensazione di essere stata più vicina ai grandi banchieri (in coda ai gazebo delle primarie) che alla platea delle piccole imprese, degli autonomi e dei professionisti che quando si sono messi in fila (il 13 e 14 aprile) hanno votato in gran parte dall’altra parte.

Nel gran rimescolamento degli anni ’90, che Berlusconi ha capito meglio di Prodi, D’Alema e Veltroni, la sinistra italiana si è trovata a inseguire obbiettivi non tradizionalmente suoi. Ha sempre giocato in terra (quella del mercato, della libera iniziativa) per lei straniera. In una sorta di apnea politica. Ma con gracili polmoni. E senza avere avuto prima, a differenza di Blair, una Thatcher. Per quanti sforzi faccia, la sinistra ha difficoltà a parlare al mondo industriale: non può offrire un “patto dei produttori” quando gli operai votano Berlusconi o Bossi. La sinistra ha puntato sulle liberalizzazioni di servizi sporadici, taxi, assicurazioni, farmacie, ordini professionali: ma si è dovuta accorgere che i benefici arrivano ai singoli troppo frazionati per portare voti, mentre gli interessi colpiti trovano protezione altrove.

Lo riconosce anche Massimo D’Alema (sul prossimo numero di Italianieuropei) quando scrive che il «riformismo tecnocratico [...] è apparso lontano dalla realtà sociale del Paese e figlio di quel minoritarismo illuministico che ha rappresentato a lungo un limite storico dei riformatori italiani». È naturale, dopo la sconfitta, la tentazione di lasciarsi scivolare verso un conservatorismo socialdemocratico, a protezione delle categorie tradizionali, pensionati, una parte del pubblico impiego, lavoratori a tempo indeterminato. Cedervi, vorrebbe dire scegliere una posizione di riserva, mentre i giochi veri si farebbero tutti altrove. Se la sinistra vuole contare ancora, deve fare esattamente il contrario: non curarsi delle riserve indiane, mirare al bersaglio grosso, a un bacino elettorale trasversale e ampio. Deve pensare a qualcosa che abbia valore universale, dunque, quasi per definizione, scuole, sanità, trasporti. E dato che è un campo che essa stessa ha contribuito a ammorbare con l’aria fritta delle buone intenzioni, il suo problema è trovare un modo di affrontarlo radicalmente diverso dal passato.

Banalmente: che cosa si chiede ai servizi universali? La qualità. E per avere qualità bisogna non solo accettare, ma stimolare le diversità. Questa è la rivoluzione che deve fare la sinistra: per avere qualità bisogna abbandonare l’obbiettivo dell’eguaglianza. È solo la concorrenza che produce la qualità, concorrenza tra manager, medici, insegnanti a cui si chiede di essere diversi, per fornire prodotti diversi. Concorrenza tra aziende e istituti a cui si dà la libertà di organizzarsi in modi diversi, compresa, ove utile, la privatizzazione.
Se la sinistra facesse questa scelta, senza riserve mentali, avrebbe trovato la sua strategia: la qualità dei servizi universali. Ma avrebbe anche trovato la sua consistenza, tra partito solido e partito liquido, tra partito delle sezioni e partito dei gazebo, tra geometrie delle alleanze e solidità di contenuti. La qualità va però cercata anche e soprattutto nella dimensione locale, nei distretti, nei territori ai quali non si parla da uno schermo televisivo, ma con il contatto diretto, il pragmatismo di tutti i giorni. La qualità è puntuale, non uniforme: se si persegue l’uniformità, se ciò che si chiede è solo la conformità a una norma, si perde il senso di ciò che si fa. E qual è il dramma della nostra scuola se non la perdita di senso da parte di tutti, insegnanti, allievi e loro genitori, quelli di ciò che fanno, questi di ciò che esigono? Concepire lo stato sociale come il regno della uniformità, della non scelta, della non concorrenza, significa confinarlo in un ghetto in cui valgono criteri diversi da quelli con cui prendiamo le decisioni tutti i giorni. In famiglia, in ufficio, in azienda.

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