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La riforma non archivia il servizio pubblico

Pubblicato il 27/05/2007 @ 16:16 in Giornali,Il Sole 24 Ore

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Il ddl Gentiloni rinuncia alla separazione societaria e prospetta una Fondazione: la politica non uscirà di scena

“Va da sé che […] potrebbe e dovrebbe essere messa in vendita ed offerta ad investitori e risparmiatori privati”. Soggetto è la società “a carattere commerciale e tenuta a sostenere le proprie attività attraverso la raccolta pubblicitaria”, una delle due in cui avrebbe dovuto essere divisa la RAI. Autore, in una lunga e circostanziata lettera al Corriere della Sera del 30 Dicembre 2004, è Romano Prodi, già in corsa per Palazzo Chigi “ Va da sé – era stata la facile risposta – che lo prendiamo in parola”.

Sbagliavamo: il Ministro Paolo Gentiloni ha proposto un ddl sulla organizzazione del servizio pubblico televisivo, la cui prima “linea guida” è la proprietà pubblica di RAI SpA. La privatizzazione della RAI non si farà mai più: le varie proposte, alcune provenienti anche dal centrosinistra, perfino dalla stessa RAI, e le infinite discussioni che le hanno accompagnate, sono archiviate per sempre. Il ghiaccio scheggiato dalla legge Gasparri, sia pure senza impegni né di tempi né di percentuali, e con modalità e procedure molto discutibili, si è richiuso.

Bisogna andarselo a rileggere, quel testo programmatico di Prodi. Si resta colpiti da quanto, in così breve tempo, sia cambiata la visione generale del sistema televisivo. Gentiloni, diversamente dagli altri autori di leggi di settore, Mammì, Maccanico, Gasparri, vede il mondo della TV spaccato in due, e ne regola ciascuna delle due metà con due leggi distinte: quella che riguarda Mediaset, già in discussione alla Camera, e questa che riguarda RAI. Prodi vedeva ancora in modo unitario il servizio pubblico, in cui “le emittenti commerciali, molte delle quali sono soggette ad obblighi di servizio pubblico, contribuiscono ad assicurare il pluralismo, arricchiscono il dibattito culturale e politico ed ampliano la scelta dei programmi”; ragion per cui “in teoria nulla obbliga ad affidare in esclusiva il servizio pubblico ad un’emittente di proprietà pubblica”. Certo, “un mercato pubblicitario con il 65% delle risorse assorbito dalle reti Mediaset e il 29% che va alla RAI” crea “problemi per le autorità di controllo e di vigilanza”; ma il compito di garantire che il mercato rimanga “aperto alla concorrenza e all’ingresso di nuovi operatori” è affidato all’”uso di tutti gli strumenti propri dell’autorità antitrust”. Per Prodi il duopolio è un dato di fatto, che crea un problema, da risolvere ricorrendo agli strumenti antitrust; per Gentiloni è un’anomalia che va estirpata imponendo a Mediaset, nella legge fatta su misura per lei, di tagliare i suoi ricavi pubblicitari in modo che stiano sotto il 45% del totale. Provocando la reazione di Philip Lowe, direttore generale della Concorrenza di Bruxelles, dato che la normativa antitrust non prevede l’imposizione di limiti quantitativi. Prodi, pur credendo necessaria una “protezione per la stampa di fronte allo strapotere della televisione”, si guardava bene dal suggerire che lo Stato ponga alle imprese vincoli sul mezzo pubblicitario che possono scegliere.

Gentiloni, riprendendo una antica proposta avanzata da Enrico Manca, allora presidente RAI, nei primi anni 90, prevede che la proprietà della RAI SpA passi dal Tesoro ad una omonima Fondazione, il cui organo di governo è formato da quattro membri nominati dalla Commissione parlamentare di vigilanza, due dalla Conferenza Stato Regioni, uno ciascuno da Cnel, consiglio dei consumatori, Accademia dei Lincei, Conferenza dei Rettori, e dipendenti RAI. L’articolato è minuzioso nel dettare i criteri di selezione, le durate in carica, i requisiti e le incompatibilità. Tutto questo allo scopo di conciliare il permanere della proprietà pubblica con la fine dell’ingerenza dei partiti nella RAI. Ma degli 11 membri, sei sono dichiaratamente nominati dalla politica –commissione parlamentare di vigilanza e conferenza Stato Regioni. Quanto agli altri, possiamo immaginare le pressioni che si eserciteranno per orientarne le scelte: la Conferenza dei Rettori delle Università può mettere a disposizione degli altri titolari del diritto di nomina un’esperienza impareggiabile in materia. La politica non uscirà dalla Fondazione RAI, e quindi neppure dalla RAI. Sarà presente in modi più opachi di oggi, le appartenenze saranno meno individuabili. E l’efficienza? Da dove, in una consimile struttura, possano venire gli stimoli non dico per vincere, ma almeno per giocare dignitosamente la propria partita nella competizione con i concorrenti, quelli tradizionali e quelli nuovi, ciascuno lo può immaginare.

La Fondazione dovrà riorganizzare la RAI provvedendo alla “separazione tra l’attività” di gestione della rete da quella di fornitura di contenuti, e delle attività finanziate dal canone da quelle finanziate dalla pubblicità. Nella versione definitiva del ddl non si fa più parola di separazione societaria, alla Rovati, per intenderci, prevista sia nella versione originaria approvata dal Consiglio dei Ministri una settimana fa, sia, a suo tempo, da Prodi. Evidentemente il “partito RAI” vive e lotta con noi.
Il canone non potrà aumentare altro che per recuperare l’inflazione, e i suoi proventi non potranno essere utilizzati per finanziare attività “non inerenti” al servizio pubblico: una locuzione che, insieme alla separazione gestionale, consente una confortevole flessibilità. Non c’è infatti scritto il contrario, e cioè che attività di servizio pubblico non possono ricevere un “aiutino” pubblicitario. Ma la “separazione di attività“ sarà sufficiente per giustificare l’aumento dell’affollamento pubblicitario nella rete commerciale. Mal che vada ci potrà sempre essere un ulteriore taglio alla pubblicità consentita al concorrente privato.
Questa non è certo la “rivoluzione organizzativa” invocata dal dg della RAI, Claudio Cappone, intervistato da Marco Mele ( Il Sole 24Ore di venerdì). Però “far fronte alle difficoltà” non sarà mai un problema angosciante: non c’è nessuna possibilità che la RAI diventi una BBC. Ma non c’è neppure il rischio che le lascino fare la fine di un’Alitalia.

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