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La RAI vale un terzo di Mediaset perché privatizzarla è impossibile

Pubblicato il 29/07/2003 @ 15:01 in Giornali,Il Riformista

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Valutazioni. L’amaro verdetto degli analisti

RAI e Mediaset hanno, in prima approssimazione, la stessa audience. Hanno circa le stesse entrate, ma metà di quelle della RAI sono garantite fino al 2015: infatti la legge Gasparri assegna alla RAI per 12 anni il servizio pubblico e quindi il canone. Quanto al patrimonio, gli impianti RAI non sono certo inferiori a quelli del concorrente, e il suo archivio storico è sterminato. Il marchio RAI è entrato nella casa di tutti gli italiani oggi viventi fin dalla loro infanzia, il suo nome é sinonimo di informazione e di intrattenimento.

Ma la RAI vale tra 1/4 e 1/3 di Mediaset. Così stimano gli analisti, secondo quanto riferisce il Sole 24 Ore di giovedì 24 luglio: tra i 2,1 e i 3,2 miliardi di euro, contro i 9,2 mld della rivale.
Né, a dar ragione della differenza, ci sono nella nuova legge norme asimmetriche a danno di RAI rispetto a Mediaset. Per entrambe vale il limite del 20% delle risorse del Sistema Integrato delle Comunicazioni. Tutti hanno fatto i conti per vedere se il limite avrebbe permesso a Mediaset di acquisire una o entrambe le maggiori imprese editoriali italiane: ma a nessuno è venuto in mente che anche la RAI potrebbe farlo, tanto inverosimile appare l’eventualità.
Certo, Mediaset ha 4400 dipendenti e la RAI circa 10.000, e, in gran parte per questo motivo, il margine operativo lordo (EBITDA) della RAI è di 262 milioni di euro, mentre quello di Mediaset è 1,35 miliardi, pari al 58% del fatturato ( nel 2002, perché nel primo trimestre del 2003 è il 61%). Ma a vistose differenze corrispondono ampi margini di miglioramento, sia riducendo personale superfluo, sia usandolo per nuove iniziative.
La spiegazione è evidente: a essere sbagliato non è il calcolo degli analisti, ma il confronto. Non si stanno affatto paragonando i valori, attuali e potenziali, di Mediaset e del suo concorrente. Perché il concorrente non c’è: c’è un’azienda controllata e gestita dal Tesoro e dal Parlamento. Quello che gli analisti valutano non è il valore di un’impresa in un mercato che la legge dice di voler aprire a nuove tecnologie e a nuove alleanze, ma il prezzo che si può pagare per esserne azionisti piccoli, divisi, in minoranza, senza poteri e senza prospettive.

La legge Gasparri (art.18) inserisce nello statuto della RAI la clausola che limita all’1% il possesso azionario; che vieta i patti di sindacato, e ogni tipo di accordo, anche mediante soggetti controllati, controllanti o collegati, tra titolari di una partecipazione complessiva superiore al limite del 2%, o la presentazione congiunta di liste. Clausole statutarie non modificabili ed efficaci senza limiti di tempo. Un mio emendamento per consentire di cancellarle con un’assemblea straordinaria, a seguito di un’OPA totalitaria, è stato respinto; è possibile che per abrogarle ci voglia una nuova legge.
Il Consiglio d’Amministrazione (art.18) è nominato con voto di lista; i consiglieri spettanti alla quota pubblica sono indicati dal Ministero dell’Economia sulla base delle delibere della Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Per la nomina del presidente si richiede il parere favorevole dei due terzi dei componenti della stessa Commissione. Questo fino alla completa alienazione della partecipazione dello Stato: evento per il quale il Ministro Gasparri, esplicitamente richiesto, si è rifiutato di indicare un termine, facendo riferimento, tanto per essere chiaro, ai modelli Enel ed ENI, dove il Governo non ha alcuna intenzione di cedere il controllo.

Gli analisti interpellati dal Sole fotografano dunque una situazione chiarissima: ciò che il Governo metterà in vendita sono quote di minoranza di un’azienda gestita da amministratori scelti dal Governo e approvati dal Parlamento a seguito di un accordo consociativo tra maggioranza e opposizione. E siccome agli azionisti privati è fatto divieto di concertare liste, i poteri del Governo e del Parlamento continueranno identici anche con quote minime in mano al pubblico.

Che la legge Gasparri sia stata scrupolosamente attenta ad assicurare che nessuna limitazione venisse posta all’attività di Mediaset oggi, e nessun vincolo al suo sviluppo domani, perlomeno a partire dal 2008, è evidente. E’ stata meno rilevata la cura ancora maggiore che essa pone per avere la certezza che in nessun caso la RAI, a seguito della “privatizzazione”, possa avere una governance capace di farne un concorrente a Mediaset: né ora né mai. Il dibattito parlamentare non lascia dubbi. Dunque i maggiori valori economici associati alle privatizzazioni, gestione efficiente e società contesa o contendibile, sono ipotizzabili in un futuro talmente lontano, da rendere trascurabile il loro valore attuale.

Tutto ciò apre un problema che fin d’ora si vuole porre con chiarezza. La maggioranza ha il controllo del Parlamento: ma non ha il controllo del vocabolario. La parola “privatizzazione” in nessun modo potrà essere impiegata per descrivere l’operazione prevista dalla legge per la RAI. Usare quella parola nel prospetto di offerta al pubblico delle azioni sarebbe una mistificazione, e la pubblicità che la impiegasse sarebbe ingannevole. Le valutazioni degli analisti lo confermano. La Consob ha la responsabilità di approvare il prospetto; l’Antitrust quella di reprimere la pubblicità ingannevole. Entrambe dovranno esigere che lo Stato rispetti per primo gli standard di trasparenza che giustamente esige dai mercati. Ex ante, questa volta.

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