La Rai privata per favorire tutto il sistema

giugno 1, 2003


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Riforma dei media

Il sistema dei media – giornali, radio, televisioni – é di fondamentale importanza per un’economia moderna: assorbe una quota consistente e crescente dei consumi, una quantità considerevole di tempo dei cittadini; é contiguo ad un settore tecnologico tra i più dinamici. La concorrenza é il modo più efficiente per allocare le risorse: quindi il sistema dei media deve essere organizzato come un mercato concorrenziale.

Ci sono vincoli da rispettare: il pluralismo, il servizio pubblico. E c’è un problema di cui tener conto: il conflitto di interessi in capo a Silvio Berlusconi. Ma risolvere gli uni e affrontare l’altro é più semplice in un mercato concorrenziale. Questo infatti produce automaticamente una certa quantità di pluralismo e di servizio pubblico: il legislatore potrà limitarsi a correggere o integrare, senza dovervi provvedere interamente, come gli toccherebbe fare in assenza di mercato. Quanto al conflitto di interessi, é un problema politico, da affrontare con atti politici: esisterebbe anche se Berlusconi fosse proprietario, anziché di televisioni, di banche, centrali elettriche, imprese di costruzioni; se Berlusconi vendesse tutta la sua partecipazione in Fininvest, una legge di riforma del settore sarebbe comunque necessaria. Il riassetto del sistema dei media deve essere progettato “come se Berlusconi non esistesse”, salvo introdurre correttivi, per tenerne realisticamente conto. L’opposizione ha l’interesse a dimostrare che la competizione politica non impedisce di perseguire il bene del paese. La maggioranza ha il dovere di dimostrare che la protezione dell’integrità di un’impresa non significa difesa a oltranza di una posizione oligopolistica che consente a Mediaset di conseguire utili più di tre volte superiori alla media del settore in Europa. Gli emendamenti che ho presentato al disegno di legge Gasparri, in discussione al Senato, sono ispirati a questi principi e consentono di raggiungere questi risultati.

1. La concorrenza possibile. Finora, per creare concorrenza, si é pensato di ridurre lo spazio di mercato degli operatori esistenti, supponendo che tanto bastasse perché altri operatori nascano e crescano. Più sicuro e rapido realizzare subito il massimo di concorrenza fin da ora possibile, favorendo l’aggregazione e la crescita delle imprese che esistono. Oggi il mercato dei media é frammentato in settori, – televisione commerciale, a pagamento, editoria, intrattenimento – divisi da steccati legislativi, ognuno con una sua regolamentazione e un suo sistema giuridico; il mercato pubblicitario é viziato da un tetto imposto alla RAI a fronte del canone, che concede a Mediaset una posizione oligopolistica, e che protegge dalla concorrenza la quota raccolta dalla carta stampata. La legge Gasparri ha la giusta intuizione: eliminare gli steccati, considerare i media come un unico mercato, permettere aggregazioni. Ma si tratta di essere conseguenti, e di creare le condizioni per un mercato concorrenziale.
Oggi gli operatori maggiori presenti sul mercato sono: il gruppo Fininvest, Mediaset più Mondadori; la RAI; due grandi gruppi editoriali, RCS e Gruppo Espresso; la televisione satellitare Sky. Gli studi comparati su vari paesi documentano che il mercato trova un assetto stabile con due maggiori operatori di Tv analogica, (sono 4 negli USA, che hanno 250 milioni di abitanti). Permettendo le aggregazioni tra TV e carta stampata, e con la prevedibile crescita di Murdoch, c’è già oggi il potenziale per avere concorrenza tra operatori di dimensioni comparabili. Perché ciò avvenga sono cruciali due condizioni: limitare l’operatore dominante, e privatizzare la RAI.
2. Eliminazione del limite al numero delle reti. Se l’obbiettivo è il pluralismo, il limite all’operatore dominante dovrebbe essere posto sullo share di audience, ed è in questa direzione che si stanno muovendo gli USA. Porre un limite al numero di reti è illogico, una rete di successo può raccogliere moltissima audience, più di molte reti insieme. Invece la legge Gasparri continua a porre un duplice limite: uno tecnico, sul numero di reti; ed uno economico, sui ricavi. Propongo di abolire il limite sulle reti. E’ vero che sentenze della Corte Costituzionale impongono che nessun operatore possa avere più del 20% delle reti nazionali disponibili: ma la situazione e’ destinata a cambiare, con le integrazioni tra TV e carta stampata consentite da questa legge, con il prevedibile sviluppo del satellite dopo la concentrazione in Sky, con l’avvio del digitale terrestre.
Si chiude così una questione che ha ingorgato il dibattito per un decennio, quella del passaggio sul satellite di Rete4, una scadenza sempre rinviata, e che il ddl Gasparri ulteriormente rimanda all’avvento del digitale terrestre, ottimisticamente il 2006. Una “soluzione” ipocrita a un problema pretestuoso: per le sue caratteristiche di “canale (mono)tematico”, Emilio Fede non é in grado di determinare spostamenti negli equilibri politici; per la scarsa audience, neppure la sua cancellazione scalfirebbe la posizione dominante di Mediaset nella raccolta pubblicitaria; il fatto che occupi una rete non è un ostacolo che valga a impedire una seria concorrenza.
3. Le risorse del sistema delle comunicazioni. Misurare direttamente l’audience è complicato; più semplice ricavarla indirettamente dai ricavi pubblicitari – le aziende pagano per la pubblicità in proporzione all’audience che riescono a catturare – e da quanto la gente e’ disposta a pagare per l’intrattenimento mediatico e l’informazione. L’audience va quindi calcolata non solo sulla TV, ma con riferimento a tutto il sistema delle comunicazioni. Che cosa ne fa parte? Per deciderlo, si usa il principio della “sostituibilità dei prodotti entro il limite di bilancio”. Un’azienda ha un budget pubblicitario: può spenderlo sulla TV o sui giornali nazionali, mediante affissioni o inserzioni su pagine gialle. Uno spettatore dedica allo svago una certa quantità del suo tempo: può guardare TV generalista o canali satellitari, leggere un libro ( ma un romanzo, non un libro scolastico, si spera!) o andare al cinema. Nella mia proposta elenco dettagliatamente quali attività contribuiscono a formare il monte delle risorse del sistema della comunicazione. Non ne fanno parte: il canone, che finanzia un servizio pubblico; le imprese di pubblicità (perché altrimenti i ricavi verrebbero contati due volte); le campagne promozionali o… le convention aziendali.
4. Il limite all’operatore dominante. Il ddl Gasparri pone un limite basso (20%) alla raccolta di risorse di ogni gruppo del sistema integrato delle comunicazioni, ma, per non toccare il numeratore, cioè per assicurarsi che il gruppo Fininvest possa mantenere i suoi ricavi, aumenta il denominatore, cioè il perimetro del sistema. Lo fa oltretutto in modo opaco, che offre spazio ad ogni futura elastica interpretazione. Si abbia il coraggio di proporre e il buon senso di accettare una soluzione trasparente e realistica: non si impongano dismissioni al gruppo Fininvest, ma si congeli la sua quota ( che stimo intorno al 26% del settore ridefinito in modo accurato) del totale risorse del settore finché la concorrenza non si sarà rafforzata: 5 anni, aumentabili a 8 a giudizio dell’Autorità a seconda del grado di concorrenza che il settore dei media avrà raggiunto. Così non si penalizza Fininvest, ma non gli si consente di sfruttare la sua forza relativa per espandersi più rapidamente del mercato, consolidando in modo irreversibile la sua posizione dominante, senza lasciare il tempo alla concorrenza di rafforzarsi.
5. Servizio pubblico. E’ necessario un servizio pubblico quando un mercato concorrenziale non avrebbe la convenienza a produrre dei beni, peraltro utili alla società. La strada maestra sarebbe quella di definirli chiaramente, e di imporne la produzione e distribuzione come onere di servizio gravante su tutte le aziende del settore: il servizio sarebbe veramente pubblico, perché raggiungerebbe gli spettatori di tutte le reti; non correrebbe il rischio di finire marginalizzato in una società separata; sarebbe modulabile a seconda delle esigenze e delle disponibilità del paese; consentirebbe al Parlamento di esercitare la sua vigilanza a tutto campo su par condicio, qualità, correttezza. Questa soluzione incontrerebbe resistenze fortissime, quindi è impraticabile. Meglio allora la più realistica separazione societaria di una rete finanziata dal solo canone . Societaria, non meramente contabile come previsto dalla proposta governativa, che lascerebbe di fatto tutto come prima.
6. Privatizzazione della RAI. A questo punto é possibile compiere l’ultimo decisivo passo: privatizzare la RAI, intesa come RAI1, RAI2, e impianti di trasmissione. La modalità é quella della OPV, in due tranche, la prima del 40% (entro il 30.6.2004) la seconda del 60% ( entro il 30.6.2005). La legge Gasparri invece, precisa sulla data di inizio delle operazioni (31.1.2004), nulla dice sulla fine. Ma finché il Tesoro ne sarà azionista, la RAI sarà pubblica; e all’ombra dell’azienda pubblica, soggetta ai vincoli e condizionamenti a cui quotidianamente assistiamo, Mediaset continuerà a godere in una posizione di rendita oligopolistica, esattamente come adesso. Invece di immaginarsi nuovi operatori perché non valorizzare un valido concorrente potenziale come la Rai che, liberato dai vincoli politici e di raccolta pubblicitaria potrebbe fin da subito imprimere una svolta al mercato?

In conclusione: da una legge che voleva essere di sistema ci si poteva attendere qualcosa di meglio del congelamento della situazione attuale. Ragionando senza velleità punitive e senza volontà egemoniche é invece possibile dare al Paese un sistema concorrenziale del settore dei media, e farlo entro questa legislatura.

IL DDL GASPARRI

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