La Rai ai privati? Può essere una strada

aprile 5, 1995


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


Il settore televisivo italiano presenta una duplice anomalia: una per l’assommarsi in Berlusconi dei ruoli di proprietario di reti e uomo di governo; l’altra per la posizione dominante della Fininvest. Le soluzioni che si propongono per risolverle presentano il rischio di rafforzare l’avversario che si vuole battere. Succede, quando si assume un punto di vista difensivo, di contenimento dei danni: e se provassimo a cambiare l’impostazione del gioco?

Riguardo alla posizione dominante di Fininvest, sia le proposte di riduzione a una rete, per sentenza della Corte o per referendum, sia il ‘disarmo bilanciato’ di Veltroni-Confalonieri, individuano l’anomalia nella dimensione relativa del settore privato rispetto a quello pubblico. Ma in questo modo si offre a Berlusconi la possibilità di presentarsi come difensore dell’impresa privata e si espongono i suoi avversari a difendere la Rai, con imbarazzanti distinguo nella sua storia passata. Perché non cambiare punto di vista, e individuare l’anomalia non nel rapporto privato-pubblico, ma nel-la loro coesistenza? Perché non assumere noi come obiettivo non la riduzione, ma l’eliminazione della presenza pub-blica dalla Tv commerciale?
La proposta può sembrare provocatoria. Però prima di tutto non esisterebbe nessuna Rai su cui mettere le mani. Il mercato televisivo sarebbe un mercato come gli altri; problemi di posizione dominante, nella diffusione come nella raccolta pubblicitaria, di intrecci azionari, di trasparenza nella proprietà, sarebbero regolati non da un legislatore che stabilisce ex ante i limiti di tutte le possibili combinazioni di presenze, ma dall’Antitrust. Questa avrebbe titolo per inter-venire nelle situazioni create dagli sviluppi dei mercati, non solo nazionali, che non possono essere ingabbiati da una ‘legge fotografia’ come la Mammì. Se si accertasse che la concorrenza equa si ha solo a parità di numero di reti, le con-cessioni sarebbero per coppie o terne di frequenze. Regole volte a proteggere l’utente da affollamenti pubblicitari fasti-diosi o a favorire le produzioni artistiche nazionali (ove a ciò si volesse provvedere) sarebbero comunque valide per tutti, e non discriminatorie.
Perché il processo di privatizzazione non dovrebbe coinvolgere la televisione? La Tv commerciale, ossia l’intratte-nimento, è più servizio pubblico dell’acqua o dell’energia elettrica? Non abbiamo sperimentato a sufficienza che il coe-sistere in uno stesso mercato di attività gestite dal pubblico e dal privato porta solo confusione, e che il più delle volte il pubblico ne esce o sconfitto (Alfa Romeo, Ilva), o con costi altissimi per la collettività (Eni-Montedison)? Non ci sono poi tanti investitori pronti a comperare reti televisive: perché quei pochi dovrebbero risolvere i problemi di Berlusconi e non i nostri?
Anche il problema del pluralismo sarebbe assai più semplice da gestire: poiché gli elettori sono anche consumatori (anche i progressisti mangiano prosciutti Rovagnati). un concorrente di Fininvest avrebbe tutto l’interesse a differenziarsi per non alienarsi fasce di spettatori, deludendo gli sponsor.
Ancora: molti sospettano che Berlusconi sia sceso in campo per difendere il suo impero televisivo dalla Rai dei partiti: l’avrebbe fatto se avesse voluto difendersi dalla concorrenza di Cecchi Gori o di Bertelsmann? Questo ci porta alla seconda anomalia, il duplice ruolo di Berlusconi padrone di televisioni e uomo di governo. Qui le difficoltà sono an-cora maggiori. Come i tentativi di ridurre l’area di mercato di Fininvest vengono contrati da Berlusconi come difesa del passato, così le proposte di sancire l’incompatibilità tra proprietà e cariche di governo rischiano di portargli consensi se, ancorché giuste in assoluto, vengono percepite come ad personam.
La demonizzazione delle televisioni e di Berlusconi ci ha già fatto danni a sufficienza: bisognerebbe incominciare e riflettere che, se questa situazione è anomala, un’anomalia era pure lo statico blocco partitocratico, e un’anomalia il fatto che, per cercare di smontarlo, sia stata necessaria l’entrata in gioco di un padrone di televisioni. Perché si dovrà pur riconoscere che, senza 1″anomalo’ Berlusconi, l’odierno quadro politico assomiglierebbe ancor più a una riedizione della prima Repubblica: di questa, la televisione pubblica è stata il tempio. Per l’immediato probabilmente dobbiamo acconciarci a questa grottesca par conditio. Con una considerazione per nulla rassegnata: un padrone di televisioni non sarà presidente del Consiglio di un paese solo se questo non vuole avere per presidente del Consiglio un padrone di televisioni.
È questo il Paese in cui vorrei vivere.

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