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La Public Company e i suoi nemici

Pubblicato il 27/07/2004 @ 17:13 in Libri,Miei scritti e prefazioni


La public company e i suoi nemici
di Mark J. Roe
Prefazione di Franco Debenedetti
Il Sole 24 Ore S.p.a., 2004
pp. 309


Le società a proprietà diffusa sono uno strumento potente per la creazione e la distribuzione della ricchezza. Ma esse sembrano essere una caratteristica del solo mondo anglosassone. Capire quali sono le condizioni che ostacolano e quali quelle che favoriscono il loro formarsi è questione politica della massima importanza.

Secondo Berle e Means – che nel 1932, con il loro The modern corporation and private property, fornirono la base razionale per il modello di imprese che porta il loro nome – le public company, raccogliendo capitali in misura impensabile per investitori individuali, sfruttano il potenziale delle innovazioni tecnologiche in grandi mercati, e lo fanno in modo efficiente, perché i manager che le guidano sono scelti solo per le loro capacità personali. Il modello si imporrà per selezione darwiniana.
Mark Roe contesta questa visione deterministica: il modello Berle-Means è quello degli Strong managers, weak owners, come recita il titolo del suo libro più famoso. Ed esso si impose come risposta della diffidenza del populismo americano verso il potere economico concentrato. Roe generalizza il risultato: sono ragioni di ordine storico e politico che spiegano l’affermarsi della separazione tra proprietà e controllo. La morale della favola è: “politics matter”.
“Law matters”, sostengono invece altri: perché si sviluppino imprese ad azionariato diffuso, è necessario che esistano istituzioni legali schierate a protezione degli azionisti di minoranza. Questo, ribatte Roe, vale certamente per i Paesi in via di sviluppo, in cui la mancanza di protezione efficace per i diritti di proprietà è una della cause della fragilità dei mercati mobiliari. Il fascino della “teoria della legge” deriva in gran parte anche dal suo intrinseco ottimismo: se i rimedi sono tecnici, gli uomini possono modellare il loro futuro, basta scaricare la soluzione da un sito Internet. Ma la spiegazione non vale per le economie di grandi Stati industriali, di Paesi come la Germania, la Francia, la Scandinavia, con sistemi giuridici raffinati e sistemi giudiziari capaci di farli rispettare, economie nelle quali però la proprietà si diffonde con difficoltà.
Ci sono i furti e ci sono gli errori. Il fatto fondamentale è che i costi di agenzia manageriale derivano sia dagli uni sia dagli altri. Ma per gli errori vale la business judgement rule: i magistrati evitano di giudicare ex post l’operato di manager in buona fede. Proprio là dove stanno le maggiori perdite che possono derivare agli azionisti, la legge societaria cade in un “abissale silenzio”. Il diritto societario, quindi, non basta: per tenere sotto controllo i costi di agenzia manageriale ci vogliono strumenti diversi: la concorrenza, il mercato del lavoro dei manager, la trasparenza, le scalate ostili ecc. È nell’interazione tra corpus di diritto diversi, che si formano i singoli ambienti economici, ciascuno con le sue diverse caratteristiche.
Per Roe, le forme societarie evolvono lungo traiettorie path-dependent. Sono la storia e la politica a spiegare perché si verifica o non si verifica la separazione tra proprietà e controllo. “Le tensioni all’interno dell’azienda – scrive Peter A. Gourevitch sintetizzando il pensiero di Mark Roe – sono connesse a tensioni all’esterno. I rapporti di forza all’interno dei consigli di amministrazione riflettono rapporti di forza nell’ambiente politico. Le pretese sui profitti aziendali derivano da obbligazioni definite dal processo politico di un Paese”.

La dimostrazione
“La socialdemocrazia poco si addice alla public company ad azionariato diffuso”, e questo per due motivi. Primo, perché azionisti di minoranza affidino i loro soldi ai manager, devono essere abbastanza sicuri che i manager lavoreranno nell’interesse degli azionisti; ma nelle socialdemocrazie classiche, i manager, sotto la spinta di pressioni sociali, politiche, sindacali, tenderanno a perseguire una strategia più attenta all’espansione che ai profitti. Secondo, le classiche socialdemocrazie sono poco inclini a mettere in atto le istituzioni fondamentali dei mercati azionari perché sono state storicamente meno interessate a sviluppare i mercati mobiliari e a proteggere i piccoli azionisti nelle grandi imprese, essendo la loro priorità quella di proteggere il “lavoratore marginale” piuttosto che il “capitalista marginale”. Per Roe c’è un “indiziato” tra le determinanti politiche della corporate governance. Ma il suo scopo è dimostrare che la teoria della politics matter spiega di più della teoria della law matters. Per cogliere il senso complessivo di una dimostrazione lunga quasi trecento pagine, può essere utile, quale filo d’Arianna, la metafora di un “processo”: si raccolgono gli “indizi”, che portano a un “rinvio a giudizio”, per giungere infine a una “sentenza conclusiva”.

Indizi. Tutti i sistemi politici devono assicurare la pace sociale, che è precondizione perché le imprese possano produrre. Ma per raggiungerla ci sono diversi modi. In Europa si sono sviluppate “accese dispute sulla ripartizione della ‘torta’ prodotta dal sistema economico, in modo ben diverso da quello assai blando che caratterizza la scena statunitense”.
• Le socialdemocrazie sollecitano i manager a stabilizzare il rapporto di impiego; ne risultano allentati i legami tra azionisti e manager.
• Le socialdemocrazie osteggiano gli strumenti favorevoli agli azionisti: le stock option, i takeover ostili, le norme per la massimizzazione della ricchezza dell’azionista ecc.
• Socialdemocrazia e proprietà concentrata ben si combinano con mercati scarsamente concorrenziali; perde così di efficacia uno strumento per mettere un freno ai costi di agenzia manageriale.
Per tutte queste ragioni, nelle socialdemocrazie i costi di agenzia manageriale aumentano: dunque un assetto societario concentrato appare più adatto per controllare il management.
ni p pio a giudizio. Roe deve innanzitutto “identificare” i due protagonisti, la “socialdemocrazia” e il “grado di separazione tra proprietà e controllo”, e provare che sono in relazione tra loro.
• La “socialdemocraticità” viene identificata mediante: un sondaggio politologico; il livello della protezione dell’impiego; le disuguaglianze del reddito (coefficiente di Gini); la spesa pubblica in funzione del Pil.
• Il “grado di separazione” è identificato mediante: il numero di imprese, grandi e medie, in cui un azionista controlla, rispettivamente, il 20% e il 10% del capitale; mediante la capitalizzazione di Borsa riferita al Pil.
Roe, dunque, argomenta: “le correlazioni [tra socialdemocrazia e concentrazione proprietaria], come quelle tra le socialdemocrazie e la complessiva anemia dei mercati mobiliari, sono forti”.
Sentenza. Roe deve risolvere il problema dell’apparente covarianza tra i seguenti fattori: prevalenza di politiche socialdemocratiche, grado di concorrenza sul mercato dei prodotti, qualità delle istituzioni legali, dimensione economica di un Paese. Le correlazioni però non dicono se la teoria politics matter è più efficace della teoria law matters. Sono in atto processi che tendono a correlarsi: l’Unione europea rafforza le leggi societarie; le Borse intermediano quote maggiori di risparmio privato; i partiti socialdemocratici vincono se diventano New Labour o Neue Mitte, in molti casi vanno al potere partiti di destra. Il mercato unico europeo, le politiche antitrust promosse da Bruxelles, la liberalizzazione degli scambi mondiali, le discipline fiscali che inducono a privatizzare, la necessità di fmanziamento delle aziende per reggere la competizione a livello globale: tutto sembra andare nella stessa direzione. Ma il rapporto di correlazione non è un rapporto di causalità.
La prova decisiva si trova nel capitolo 22: la teoria della law matters predice in modo plausibile la separazione di proprietà e controllo, ma “quando inseriamo anche le variabili politiche otteniamo una forza esplicativa ben maggiore”. Teoria giuridica e teoria politica spiegano entrambe tale separazione, e insieme la spiegano meglio, ma separatamente la variabile politica è sempre più fortemente correlata della variabile legale e, se sono considerate insieme (come nelle tabelle 22.2 e 22.3), la politica è dominante mentre la legge è di solito insignificante. Se cosideriamo l’insieme delle nazioni ricche dotate di una buona legge societaria, troviamo che alcune di esse presentano società secondo il modello Berle-Means, altre no. Solo l’argomento politico può spiegare questa differenza.

Socialdemocrazia e altre variabili politiche
Social democracy è il nome che Mark Roe attribuisce a una politica fortemente sbilanciata a favore degli stakeholder, e che egli considera “determinante” per i suoi effetti sulla corporate governance. Ma la parola “socialdemocrazia” ha, per il lettore italiano, una carica storica e simbolica che la rende assai più pregnante del vocabolo inglese. La traduzione letterale “democrazia sociale” non ha riferimenti nella letteratura scientifica, mentre “democrazia welfarista” rende bene il carattere di protezione del lavoratore, ma rimanda a un solo aspetto specifico, per quanto importante.
La parola “socialdemocrazia”, che alla fine si è deciso di usare nell’edizione italiana, suona come una provocazione politica per il lettore italiano. Ma è anche una provocazione “logica” allo stesso Roe, perché tocca proprio una delle critiche principali che gli sono state mosse: avere usato una parola, social democracy, per indicare storie e situazioni affatto diverse. Una critica a cui egli va incontro consapevolmente: se è solo per ragioni eufoniche che non ha intitolato il libro (come “sarebbe stato meglio”) “Una determinante politica della corporate governance”.
Mentre del tutto persuasiva è la dimostrazione che Roe dà della politica come determinante del grado di separazione della proprietà dal controllo, la scelta della variabile “socialdemocrazia” crea, al contrario, non poche difficoltà. In Germania, le legislazioni sociali nascono con Bismarck, che è difficile qualificare come socialdemocratico. Alla Mitbestimmung hanno messo mano in molti: introdotta nel 1921 dalla Repubblica di Weimar, abolita dal nazismo, reintrodotta da Konrad Adenauer nel 1951 per l’industria del carbone e dell’acciaio della Ruhr, fu estesa nel 1976 dal socialdemocratico Helmut Schmidt a tutte le aziende con più di 2000 dipendenti. La soziale Marktwirtschaft ha più il marchio della Cdu/Csu che della Spd. In Giappone il partito liberaldemocratico si regge su una coalizione di interessi eterogenei, e le caratteristiche di “Japan Inc.” furono calate sulla cultura giapponese con la presenza dei militari americani. In certe nazioni, e Roe lo riconosce, l’intero spettro politico è spostato a sinistra rispetto a quello degli Stati Uniti, e partiti nominalmente conservatori sono, in materia economica, più “sociali” della “sinistra” americana rappresentata dal partito democratico. La Francia può essere considerata come socialdemocrazia solo con qualche forzatura. Quanto al neocolbertismo dei national champion, e alla contrapposizione agli Stati Uniti, i gollisti appaiono più intransigenti dei socialisti. Perfino il caso dell’Inghilterra – che condivide con gli Stati Uniti la cultura della common law e un apparato legislativo esemplare – è più controverso di quanto sembri. Brian Cheffins nota che la diffusione del modello public company aumentò notevolmente già negli anni della maggiore influenza dei laburisti, dal 1945 al 1979, dunque prima dell’accelerazione impressa da Margaret Thatcher. Ma una più accurata analisi di Franks, Mayer & Rossi fanno risalire il fenomeno alla prima parte del XX secolo, quando l’Inghilterra era molto più conservatrice: più che la legge e la finanza, sarebbero stati i sistemi di relazioni informali a determinare lo sviluppo dei mercati finanziari e della proprietà diffusa. Per non parlare dell’Italia, dove la Dc fu la forza dominante per mezzo secolo e dove gli eredi del Pci dovettero attendere il 1994 per andare al governo. Un governo che si distinse per un imponente processo di privatizzazioni, per aver varato una delle più avanzate leggi in tema di corporate governance e di scalate ostili, e per essere riuscito a entrare nell’euro, moneta governata da una banca centrale tra le più indipendenti.
Roe raggruppa una serie di posizioni avverse al mercato e attribuisce loro l’etichetta di “socialdemocrazia”, indicando con ciò il potere politico della sinistra e dei sindacati. La semplificazione è utile per le analisi statistiche, ma “[il] modello a due classi è un modello piatto che non consente di dar conto delle differenze nelle preferenze, né di costruire modelli delle coalizioni che producono output politici”. Cioè la politica è un fattore critico, ma il modello a due classi non mette in evidenza il modo in cui lo è e come varia da Paese a Paese: Roe lo riconosce, senza sviluppare a fondo l’argomento. Oltre alle differenze nelle regole di corporate governance, ci sono quelle che riguardano mercati del lavoro, prezzi amministrati, sistemi di welfare, educazione e formazione, strategie produttive, distribuzione del reddito, tassi di occupazione, politiche macroeconomiche. Il loro insieme determina cleavages settoriali, che la letteratura sulle varianti del capitalismo (Voc) analizza usani Ii i concetti contrapposti di “economia liberale di mercato” (Lme) e di “economia coordinata di mercato” (Cme). Tali concetti consentono di mettere in evidenza preferenze e interessi comuni tanto a destra quanto a sinistra dello schieramento politico, e quindi il formarsi di coalizioni. A sinistra, per esempio, gli interessi dei lavoratori in aziende efficienti, esposti alla concorrenza internazionale, sono diversi da quelli di chi lavora nei settori protetti. Dall’altro lato, a destra, i manager e i fondi azionari sono interessati principalmente alla crescita rapida, mentre i fondi pensione sono più interessati alla stabilità. Non c’è solo conflitto fra azionisti e manager, i il indi, ma anche fra gli azionisti e fra i manager: donde la necessità di stringere alleanze che mettano in campo altri tipi di interessi.
“L’approccio Voc [...] vede l’economia politica come un terreno popolato da una molteplicità di attori, ciascuno dei quali cerca di perseguire i propri interessi in modo razionale, interagendo strategicamente con gli altri”. “Le differenze negli assetti istituzionali dell’economia politica producono differenze sistematiche nelle strategie aziendali tra Lme e Cme”, per esempio rispondendo in modo diverso a uno stesso tipo di shock, con conseguenze anche sulla corporate governance.
“I politici possono cambiare le leggi societarie, se vogliono: quando e perché decidono di farlo?”, si chiedono Pagano e Volpin In The political economy of corporate governance. E a partire da questa domanda sviluppano un modello in cui il comportamento degli elettori e dei politici è formalizzato in funzione del loro interesse e della loro ideologia. La conclusione è che le economie Cme mostrano connessione con leggi elettorali proporzionali, sistemi multipartitici e governi di coalizione, mentre le economie Lme sono correlate con leggi maggioritarie, sistemi bipolari, e governi compatti. “In sistemi proporzionali il risultato politico è un basso grado di protezione per gli azionisti, e un alto grado di protezione dei lavoratori. Questo avvantaggia imprenditori e lavoratori, e danneggia gli azionisti di minoranza. Una debole protezione degli azionisti consente agli imprenditori di estrarre un forte beneficio privato del controllo, mentre una forte protezione dei lavoratori consente anche a lavoratori con bassa produttività di conservare un posto ben pagato. Invece in un sistema maggioritario, la legislazione fornirà protezione agli azionisti, e poca protezione ai lavoratori”.

Il caso Italia
“La tesi qui proposta – scrive Roe – non è normativa: non asseriamo che le socialdemocrazie forti non forniscono i beni, in senso utilitaristico. [...] Anzi, intuitivamente si potrebbe giungere alla soluzione opposta: fornendo di più a una base di persone più ampia, quei governi forse conseguono più efficacemente degli altri l’obiettivo utilitaristico del massimo bene per il maggior numero”.
È difficile, per il lettore italiano, mantenere un atteggiamento così equidistante. Siamo chiamati ad avere un’opinione. Della perdita di competitività della nostra economia, del calo delle nostre esportazioni e del loro contenuto, delle crisi di alcune grandi imprese e della tutela di altre nei più protetti porti dei mercati oligopolistici con prezzi amministrati. Il “nanismo” industriale sembra il nostro angusto destino; ed è difficile pensare che tutto ciò non abbia a che fare con una politica che non sa dare visioni, una finanza che non sa selezionare le iniziative, un’imprenditoria che non sa affrontare il rischio di sfide globali. Di qui il mito della public company, soluzione salvifica a un capitalismo senza capitali.

Dal compromesso alle riforme. “Capacità della grande impresa di attrarre capitale diffuso e supervisione del controllo societario costituiscono [...] un saldo binomio”: lo si diceva già negli anni Cinquanta. Gli elementi di una buona legge societaria di stampo liberale erano già tutti presenti fin da allora nel dibattito accademico e politico. Invece si ebbe la convergenza di protezione dei blockholder nelle società, la tutela del posto di lavoro in fabbrica, la protezione dei mercati dalla concorrenza. Più tardi vennero la Consob e l’Antitrust. Conta la path dependence, conta la politica: nella nostra storia sono queste le ragioni per cui non si sono affermate società sul modello Berle-Means.
Il “compromesso senza riforme” del dopoguerra si basava su: “liberismo internazionale; intervento dello Stato attraverso gli enti pubblici anziché con la regolazione e la programmazione; politica di esenzioni e sussidi a specifici gruppi sociali; contenimento dei salari e dei diritti dei lavoratori”. Un modello né statalista né liberista, ma “liberal protezionista”, secondo la definizione di Amato. Un modello che è degenerato, tra il 1950 e il 1960, in un “neocapitalismo pubblico dove […] la rispondenza delle scelte imprenditoriali agli interessi generali è perseguita attraverso il controllo politico diretto dell’impresa pubblica e la contrattazione programmata con la grande impresa privata”. L’Italia seguirà questa strada fin quando “l’esaurimento delle capacità di compensazione delle pubbliche finanze, la degenerazione della contrattazione programmata in corruzione diffusa degli imprenditori privati e dei pubblici funzionari, gli effetti paralizzanti sulla mobilità sociale degli assetti di controllo e finanziari chiusi, l’obiettivo di partecipare alla nuova fase dell’integrazione europea hanno reso impraticabile ciò che restava dello straordinario compromesso postbellico”.
A confronto della continuità sostanziale di quel lungo periodo, sbalorditive appaiono, per quantità e rilevanza, le novità nell’ultimo decennio del secolo scorso: privatizzazione delle banche e creazione delle fondazioni bancarie; testo unico della finanza (legge Draghi); legge elettorale maggioritaria; riforme delle pensioni Amato, Dini e Prodi; adesione al monetarismo e accettazione del rigore di bilancio; entrata nell’euro e cessione di sovranità alla Banca centrale europea; riforme Treu (e poi Biagi) del mercato del lavoro, autorità di regolazione e controllo indipendenti. E, soprattutto, l’imponente dismissione di quote di imprese di Stato. Poi è cambiato il clima politico. Oggi a volere le imprese di Stato, a sinistra, c’è solo Fausto Bertinotti. A difendere i national champion, a proporre un neocolbertismo, a ipotizzare dogane protettive, a voler metter mano agli attrezzi classici dell’interventismo statalista, è innanzitutto il centrodestra.
L’Italia, dice Roe, ha imboccato “il sentiero riformatore”. Ma è solo per il ritardo con cui i passi compiuti su quel sentiero si traducono in fatti rilevati dalle statistiche, che poi, quando elabora i dati, attribuisce all’Italia uno dei gradi più elevati di “socialdemocraticità”? Per questo Hall e Soskice, ancora nel 2001, la collocano in pieno tra le Cme?

Il mito futuro della public company. Perché la proprietà si separi dal controllo è necessario che si formino soggetti interessati a esercitarne la supervisione, e che chi ha il controllo abbia interesse a cedere i benefici privati che gliene derivano. Ma la partita dei fondi pensione si gioca sul tavolo della riforma del welfare. Essi vedranno la luce solo il giorno in cui sindacati e industria ammetteranno l’ineludibilità di una riforma del sistema pensionistico e riconosceranno che la pensione complementare è il solo modo per ridurre il grado di copertura della pensione pubblica, e salvarla dal fallimento. Mentre i populisti di destra e di sinistra, agitando lo spauracchio che le aziende possano essere preda di rapaci investitori stranieri, forniscono un supporto a quel capitalismo delle grandi famiglie che vorrebbero superare.
Gli azionisti che hanno il controllo, da parte loro, sono disposti a vendere soltanto se la somma del beneficio privato del controllo più i costi di agenzia manageriali che essi possono evitare è inferiore al costo per mantenere il controllo (in termini di minore liquidità e diversificazione del rischio). Analizziamo i termini della disequazione.

• Costi del controllo: la struttura piramidale lo diminuisce, perché è una leva (a volte multipla) che consente di ridurre la quantità di danaro impegnato.
• Benefici privati del controllo: la legge limita quelli “normali”, ma non quelli derivanti dallo status, dal prestigio personale, da un sistema del credito basato sulle relazioni. Non limita le stock option: non viene infatti ritenuta una contraddizione chiedere agli azionisti di minoranza, che già forniscono i capitali per controllare un grande gruppo con un piccolo capitale proprio, di attribuire all’azionista di riferimento pure una stock option. “The best of two worlds”.
• Costi di agenzia manageriale: la posta decisiva. In un sistema così permeato dalla politica come quello italiano, la tentazione di colludere con la politica, è molto forte. Colludere con la politica significa poter influenzare le decisioni del governo, che si tratti di commesse, o di sussidi, o di rapporti con le altre parti sociali; significa condizionare, in un mercato limitato, i comportamenti delle controparti, esercitare una posizione dominante. Sia l’azionista di controllo sia gli azionisti di minoranza temono che, se l’azienda è gestita da un manager esterno, questi possa decidere di “giocare in proprio” in modo azzardato, esponendo l’impresa a un rischio maggiore di quello che farebbe un azionista di controllo.
Il rapporto con la politica è decisivo. Così si spiega l’anomalia italiana per cui tutti i grandi giornali sono di proprietà di gruppi industriali: il possesso dei media serve a puntellare quel “potere” politico che è la vera ragione d’essere dei gruppi piramidali.
Il mito passato dell’Opa. “La contendibilità del controllo societario è un metodo per ridurre i benefici privati del controllo”, scrivono Pagano e Volpin. L’ ”Opa del secolo” di Roberto Colaninno su Telecom apparve come un episodio straordinario nella storia recente del nostro capitalismo. Per la sua dimensione, al momento la più grande operazione del genere in Europa, ma soprattutto perché era stato osato l’impossibile – come pensava Franco Bernabè – fece credere a molti che potesse iniziare una nuova era nel rapporto tra imprese e mercati finanziari.
Due riflessioni. La prima è che, contrariamente a una vulgata che solo la ripetizione ha reso credibile, la politica non intervenne a sostegno di Colaninno. Dopo il via libera di D’Alema all’imprenditore coraggioso (senza il quale la sua avventura non sarebbe neppure decollata), nessun aiuto è derivato a Colaninno da quelle amicizie: e sì che tra Unipol, Lega delle Cooperative, Montepaschi non sarebbe stato difficile organizzarlo.
La seconda riguarda l’architettura societaria. La riorganizzazione che Colaninno propose, ma che il mercato obbligò a ritirare, era in sé molto razionale: una capogruppo che controllava le aziende del fisso, del mobile, di Internet, e della rete fissa, quest’ultima da vendere all’occorrenza, come moneta di scambio verso le autorità di mercato e per ripianare i debiti. L’acquisto di Telemontecarlo e di Seat-Pagine Gialle sono state operazioni di lucidità e coraggio strategico. Ma Colaninno ha commesso due errori di incoerenza. Il primo nella scelta del consiglio di amministrazione, soprattutto di Telecom Italia: chi conquista una società con l’uso audace di strumenti di mercato, qual è l’Opa, deve poi gestirla con l’osservanza rigorosa delle regole di corporate governance, del tipo di quelle previste dai codici di comportamento in vigore nei mercati sviluppati. Il secondo è stato quello di avere incominciato a ragionare esattamente come i capi degli altri grandi gruppi: mettendosi cioè a proteggere il proprio potere di controllo con patti di sindacato e con la onerosità – presunta, come si è visto – di una eventuale scalata, anziché fondarlo sull’efficienza della gestione e sulla validità della strategia. Ripagare i debiti e accorciare la catena societaria, da una parte, e garantirsi il controllo, dall’altra, si sono rivelate due opzioni antitetiche. Colaninno, a un certo momento, ha pensato addirittura a fare di Olivetti un inattaccabile polo laico industriale-finanziario e, vedi caso, anch’egli ha pensato che, per riuscirci, fosse necessario acquisire un giornale. Accontentandosi, per il momento, di una rete televisiva. La cultura dominante è la cultura della classe dominante: nel capitalismo italiano la classe dominante è quella dei capi delle grandi famiglie, non quella di Jack Welsh. Roberto Colaninno non vi si è sottratto.
Dopo di che, il Consiglio di Stato ha provveduto a depotenziare la passivity rule: di Opa sentiremo meno parlare.

Privatizzazioni. Secondo il modello di Perotti (credible privatization) un governo che privatizza per riformare il sistema economico trasferisce il controllo mantenendo una quota per dare la dimostrazione che non interferirà ex post sotto pressione di altri stakeholder, e pratica l’unclerpricing, per segnalare credibilmente le sue intenzioni. Invece un governo che vende solo per far cassa venderà l’intera partecipazione a prezzo di mercato. Quanto teorizzato da Mario Draghi, in un articolo sul Corriere della Sera dell’agosto 1999, indica chiaramente la prima strada. Ma poi la realtà è stata che il processo, vistoso in termini finanziari, si è interrotto. Le privatizzazioni non hanno prodotto la separazione tra proprietà e controllo: semmai il contrario.
A parte la privatizzazione di Telecom, capolavoro di Ciampi, Enel ed Eni restano saldamente controllate dallo Stato; restano pubbliche le Poste e così pure, nella quasi totalità, le aziende municipalizzate e i servizi locali; la Cassa Depositi e Prestiti si è trasformata in una banca pubblica in concorrenza con quelle private per il finanziamento di opere pubbliche da parte di privati; le fondazioni bancarie, dopo un lungo contenzioso con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, continuano ad avere un ruolo decisivo negli assetti proprietari di molte banche e delle Assicurazioni Generali. Resta pubblica anche la tecnologia di Finmeccanica e l’inefficienza di Alitalia. Per la Rai, Gasparri si inventa una public company fondata sul divieto – aere perennius – di detenere più dell’l% del capitale e di formare sindacati di voto oltre il 2%; mentre il Tesoro potrà conservarne, a suo piacimento, una fetta grande quanto vuole.
L’apertura del mercato dell’energia elettrica seduce Fiat a entrare in un settore oligopolistico, acquistando Montedison; Pirelli acquista Telecom ed entra in quello delle telecomunicazioni; Benetton compera Autostrade. Si voleva privatizzare per ampliare il nostro capitalismo, e invece il risultato è stato di aumentarne il grado di concentrazione. Si voleva ridurre il controllo tramite strutture piramidali, e invece vi si aggiungono nuovi piani. Si volevano proteggere gli azionisti di minoranza, ma le autorità di vigilanza o si mostrano irresolute (come nel giudicare la sussistenza di azione di concerto nel caso Montedison) o si dichiarano impotenti a far sì che il passaggio di proprietà di società con migliaia di azionisti, come Telecom, avvenga tramite un’operazione di mercato che ripartisca tra tutti gli azionisti il premio per il controllo. Quanto a separazione tra proprietà e controllo, le privatizzazioni sono state un’occasione perduta.
Se il problema fosse stato tecnico, non sarebbero mancate le soluzioni alternative. Per il mercato del controllo, si poteva ricorrere sistematicamente al metodo dei buoni di acquisto che, insieme a De Nicola, Giavazzi e Penati, avevo proposto per le banche possedute da fondazioni. Per il mercato dei prodotti, si poteva provvedere al sistematico breakup delle aziende da dismettere. Furono proposti schemi dettagliati per la privatizzazione di Telecom Italia e, più recentemente, per le grandi reti di trasmissione, dell’energia elettrica e del gas. Se si vuole cambiare la struttura di un sistema economico, bisogna ripartire da un punto anteriore a quando questa struttura si è formata, smontare ciò che fu aggregato per decisioni politiche e lasciare che siano le forze di mercato a riaggregare.
Certo, in tal modo non si preserva l’unità dei grandi gruppi creati dal lungo dominio delle partecipazioni statali, non si garantisce che il controllo delle imprese resti alla fine in mani italiane. E questo non piace ai sindacati, perché abbatte roccaforti del loro consenso organizzato; non piace ai populisti per motivi nazionalistici o di campanile; non piace ai grandi gruppi interessati proprio alla possibilità di operare in mercati chiusi e a prezzi influenzabili dalla politica.
Di fronte al dilagare dell’intervento pubblico affidato alle partecipazioni statali, la Mediobanca di Cuccia fu la trincea della difesa dell’impresa privata italiana Una difesa in cui fu giocoforza ingegnarsi “per consolidare o ridisegnare gli assetti proprietari e di controllo di quelle società, per consentirne le ristrutturazioni, per gestirne la crisi”. Anche per la presenza, nel suo consiglio di amministrazione, di amministratori nominati da Lazard e da Lehman, Mediobanca riuscirà a proteggere le “sue” aziende da invasioni politiche. Curiosamente, già all’epoca della nazionalizzazione dell’energia elettrica, Cuccia aveva proposto di affidare a un fondo gestito da Mediobanca e dalle banche alleate l’opportunità di selezionare subito il gruppo dirigente del nuovo polo, e di esercitare poi su di esso un potere di supervisione finanziaria”. La proposta fu ovviamente respinta. Tuttavia, nella lunga guerra di trincea, partecipazioni statali e Mediobanca garantivano entrambe stabilità: la prima, negli anni dei manager nittiani, praticando la separazione tra proprietà e controllo. La seconda costruendo strutture a sostegno delle proprietà familiari. E quando venne il momento di privatizzare, fu il modello a proprietà concentrata a prevalere.

Il governo a un imprenditore. Una delle relazioni più importanti nelle società moderne è quella tra mondo degli affari e governo. Le aziende e i governi sono tra le istituzioni più potenti nelle nostre società; la maggior parte delle risorse sono allocate o dai mercati o dai governi. Gestire le relazioni tra mondo degli affari e governo è una delle sfide più importanti che la politica contemporanea deve affrontare. Nell’ottica di Mark Roe, tutta dedicata a investigare i rapporti tra governo politico e governo societario, l’irrompere sulla scena politica italiana di Silvio Berlusconi è un fenomeno di eccezionale interesse. Il fatto che Berlusconi, imprenditore dei media, abbia conquistato il massimo possibile di potere politico appare come l’ipostasi esemplare del nostro sistema economico, non già una sua anomalia. La famosa frase dell’avvocato Agnelli – “se perde, perde lui solo, ma se vince abbiamo vinto tutti” – si presta a essere letta in un modo non opportunisticamente cinico, ma realisticamente radicale. Quando non basta più essere governativi per vocazione, c’è qualcuno che diventa governo per votazione.
Mentre gli altri grandi capitalisti puntellano il proprio potere economico con la proprietà di giornali, periodici, radio e, al massimo, con una rete Tv in chiaro, Berlusconi di gran lunga li sovrasta con la dimensione del suo impero televisivo. Quando la protezione (la Tv come mezzo) diventa tutt’uno con il bene protetto (la Tv come industria), il rapporto con il potere politico non è più un vincolo che può condizionare il successo della propria impresa, ma ne diventa lo “scopo societario”.
Dal punto di vista politico, il successo di Berlusconi è, per alcuni, il superamento, per altri, la continuità con gli avvenimenti degli anni 1989-1994: la caduta del Muro, la crisi dei partiti comunisti, la convulsa fase finale del potere Dc-Psi, l’affermazione della Lega, tangentopoli. Dal punto di vista del rapporto tra potere economico e potere politico, Mediaset ha difeso l’industria privata dell’informazione dal monopolio pubblico, non diversamente da come Mediobanca ha difeso il nostro capitalismo dalla sovietizzazione del Paese. La conquista del governo è il takeover della Rai da parte di Mediaset. Takeover quanto mai amichevole e pro tempore: ci penserà il meccanismo della path dependence a prolungarne gli effetti nel tempo. Se le privatizzazioni delle grandi Utilities sono state un’occasione mancata, la più mancata di tutte è stata la non privatizzazione della Rai. Le privatizzazioni effettuate sono andate ad accrescere il potere dei grandi gruppi, la privatizzazione non effettuata, quella della Rai, ha finito per consegnare al potere economico privato tutto intero il potere politico.
Il conflitto di interessi in capo a Berlusconi è cosa ben diversa dai benefici personali che gli derivano da leggi da lui firmate – la Tremonti, la Gasparri, l’eliminazione dell’imposta di successione per i grandi patrimoni – fenomeni che, seppure in modi meno visto si verificano con molti governi. Il conflitto di interessi di Berlusconi non è un inconveniente emendabile, è la sua sostanza: perché è lui che “ha vinto per tutti gli altri”, anche per quelli che il potere politico si limitavano a portarlo in giro con il proprio elicottero. Berlusconi è la dimostrazione, parossistica, che “politics matter”.

La politica delle banche. Fu a causa del timore populistico per il potere delle grandi istituzioni finanziarie – sostiene Mark Roe in Strong managers weak owners – che gli Usa emanarono i tre provvedimenti che avrebbero determinato lo straordinario sviluppo del loro mercato mobiliare, e quindi anche il successo della società modello Berle-Means: il Glass Steagall Act, del 1933, che proibiva alle banche di avere in portafoglio o di trattare azioni; il Securities Act, dello stesso anno, sulla trasparenza nei mercati finanziari; e il Securities Exchange Act, dell’anno successivo, che istituiva la Security Exchange Commission. Inoltre fino al 1970 tutti gli stati proibivano alle banche di avere filiali in più Stati.
La risposta alla grande depressione in Europa fu di tipo dirigista, con nazionalizzazioni di banche e imprese. Negli Stati Uniti, i giudici e gruppi di pressione conservatori misero un freno alla volontà interventista di Franklin D. Roosevelt. Da lì le strade presero a separarsi: per quanto riguarda le forme di corporate governance, e per quanto riguarda il funzionamento dei mercati finanziari
Rajan e Zingales hanno analizzato le due forme polari di finanziamento delle imprese, quella “relazionale” e quella “impersonale”. Poiché “le grandi organizzazioni possono beneficiare dai mercati impersonali molto di più delle piccole aziende padronali, […] c’è una correlazione positiva tra lo sviluppo di mercati impersonali e la separazione di proprietà e controllo”. Il sistema basato sulle relazioni svantaggia i nuovi entranti, scoraggia l’innovazione radicale e non incrementale: “tutti gli errori tendono ad andare nella stessa direzione, verso la protezione di incumbent deboli. La visione a lungo termine del sistema relazionale, di cui si favoleggia, potrebbe invece essere di assai breve termine”. Ma i sistemi di rapporti impersonali non possono instaurarsi senza la mano visibile dei governi, nessun singolo investitore guadagna molto da mercati trasparenti e competitivi, c’è quindi un tendenza al free riding. Invece “un sistema relazionale ha per sua natura supporti politici [...] Il potere politico è naturalmente incline a mantenere o a promuovere un sistema relazionale”.
L’Italia conferma. Per il credito normale prevale l’affidamento multiplo, che dà luogo di per sé a relazioni impersonali. Ma per i grandi clienti e per le grandi operazioni sono i rapporti relazionali a far la differenza. Come si è visto anche in occasione degli scandali recenti, alimentari e calcistici, a Parma e a Roma.
A determinare i modelli di corporate governance prevalenti non conta solo il modo di operare delle banche, se impersonale o relazionale all’interno della polarità; conta, forse ancora di più, la corporate governance delle banche stesse.
Le banche sono state privatizzate, ma le fondazioni bancarie, pur avendo molto ridotto la loro partecipazione nelle banche sottostanti, hanno ancora un ruolo importante per gli assetti proprietari e per la loro stabilità. Il numero delle banche è diminuito, in parte per aggregazione, in parte per salvataggi. Sono scomparse tutte le banche meridionali. Nel capitale di numerose nostre banche sono entrate banche straniere. Ma tutto è avvenuto sotto l’attenta regia di Bankitalia. Il potere di vigilanza, sommato al potere antitrust costituiscono un potere apicale che rende il nostro sistema bancario compatto, impermeabile a forze esterne, levigato e perfetto come un gabbiano di Brancusi. E immutabile nel tempo, come simboleggia il mandato senza limite di tempo del governatore.
Questa costruzione rappresenta un’anomalia nello schema logico di Mark Roe: che non prevede la presenza di un tertium tra imprese e politica. Il nostro sistema bancario è insieme politica e impresa, ha una propria autonomia, di status e di agenda, persegue fini che non si identificano né con quelli delle imprese né con quelli della politica.
Questa terzietà, questa separatezza, rappresentano uno degli ostacoli principali per una politica delle riforme. Perché il funzionamento dei mercati finanziari è il punto di attacco di ogni politica riformista. Rajan e Zingales raccontano, nel loro Salvare il capitalismo dai capitalisti, la storia di Sufia, che era schiavizzata dagli intermediari perché le mancavano solo ventidue centesimi, e quella opposta, di Kevin e Jim che hanno fatto fortuna con un piccolo prestito. E viene da chiedersi: chi, da noi, avrebbe le idee di una Grameen Bank o di un search fund? Più modestamente (modestamente?) chi è in grado di sviluppare una finanza che dia idee, prospettive, visioni a questo nostro Paese, a chi ha, o avrebbe per conto suo, idee, prospettive, visioni? Sempre di più, e con sempre maggiore accelerazione, è alle innovazioni finanziarie che si devono lo sviluppo e la crescita delle economie, la protezione dai rischi, la diffusione del benessere. Quello che mi pare sicuro è che poca innovazione possa uscire dal “gabbiano di Brancusi”. Ora, a seguito degli scandali Parmalat e Cirio, sembra si introdurranno riforme volte a separare le funzioni di controllo di stabilità e di concorrenza, e che si correggerà l’anomalia dell’incarico senza termine del governatore. Se queste leggi saranno approvate, sarà un grosso cambiamento. Che, per essere completo, dovrà aprire alla concorrenza, anzi alle concorrenze: perché, lo sappiamo, è necessario che la concorrenza ci sia in entrambi i mercati, quello dei diritti di proprietà e quello dei prodotti. La path dependence, che la nostra storia esibisce in modo così esemplare, induce a guardare con scetticismo alla capacità delle sole leggi di cambiare il nostro ambiente economico: “politics matter”. È vero che in Italia la socialdemocrazia è la determinante della corporate governance che abbiamo, e che ad essa si deve se nel nostro Paese non si è affermato il modello della public company?
È possibile trarre conclusioni normative da questa analisi positiva?
Alla tesi dell’importanza determinante della socialdemocrazia si possono fare molte obiezioni. Si può ricordare il peso che ha il pensiero sociale cattolico nella nostra storia; nelle parole di Guido Carli, citate da Roe, “le ideologie marxista e cattolica dominarono il pensiero politico e sociale italiano, l’uno da destra, l’altro da sinistra, e nessuno dei due era molto attento ai mercati”. Fin dalla storia di quella Costituzione che, secondo Tommaso Padoa Schioppa, avrebbe potuto tranquillamente consentire la sovietizzazione del nostro Paese. Si può ripetere che è stato con il consenso o con il positivo apporto della sinistra che si è realizzato il più massiccio programma riformista in Italia, e che nel successivo governo di centrodestra le riforme si sono limitate ai settori “sospetti” della giustizia e dell’informazione. Si devono riconoscere, nella nostra economia, i tratti tipici dell’”economia coordinata di mercato”, per stare alla tipizzazione degli studiosi delle varietà di capitalismo.
Ma l’obiezione di fondo sta nella difficoltà di individuare l’identità di una socialdemocrazia in Italia. È diventato sempre più difficile rispondere alla domanda “What is left”, che fa da titolo a un famoso saggio di Michele Salvati. Anche recentemente i tentativi di collocare la coalizione dell’Ulivo su un immaginario asse destra/sinistra incontrano difficoltà. Tanto che viene da domandarsi se lo stesso interrogativo, “what is left”, non rimandi a un altro. Se cioè essere “left” sia oggi qualcosa di più del ricordo di una passione. Se la sinistra, da ideologia, sia diventata una mitologia. In ogni caso, le posizioni avverse al mercato, fatte salve posizioni estreme, sono distribuite in modo abbastanza uniforme sull’asse destra/sinistra.
Credo che la sola definizione possibile di socialdemocrazia, o di sinistra, sia operativa, dunque di programma. La posta in gioco, ovviamente, è realizzare un ambiente economico vivace, riprendere la strada della crescita, mettere a profitto le energie umane del Paese: la public company è uno dei mezzi a disposizione, non l’unico. La diagnosi delle cause della stagnazione europea è stranota: poche ore lavorative all’anno, un welfare che non incentiva la ricerca di nuovi lavori, pochi investimenti in ricerca, le tante corporazioni che bloccano. Questo libro parla di che cosa favorisce e che cosa ostacola il formarsi di public company: un tema che va riportato a quel quadro di insieme. La public company viene invece a volte considerata dai politici come un bene in sé; come una soluzione anziché uno strumento, come un mito. Sia nella versione che la vorrebbe veder sorgere tutta pronta con scudo e lancia come Minerva dalla testa di Giove, sia in quella che la vorrebbe come un bellissimo principe trasformato grazie al bacio di una dolce fanciulla. L’obiettivo non è la public company, l’obiettivo sono i mercati aperti in cui possa formarsi, se del caso.
C’è da chiedersi se le poche grandi aziende familiari che abbiamo possano evolvere verso modelli di governo societario radicalmente diversi da quelli in cui si sono formati. Mi sembra che a pezzi importanti della e per la nostra economia si debba riservare l’attenzione che si meritano. Ma sono convinto che sia più importante guardare alle condizioni che sappiamo offrire ai fenomeni più nuovi della nostra imprenditoria. Condizioni che riguardano mercati finanziari, concorrenza, servizi, sicurezza.
Non credo che alla politica si debba chiedere in quale direzione guidare il Paese. Può darsi che si vada verso modelli di liberai market economy: dopotutto abbiamo una legge elettorale maggioritaria, abbiamo buone leggi di corporate governance, riprenderemo a privatizzare, non siamo – e come potremmo esserlo? – ostili alla globalizzazione. Ci sono molti modi di organizzare con successo le imprese e la società, più di quanti se ne trovino nei libri. Bisogna soltanto evitare che “con il pretesto di conquistare maggiore sicurezza per i disagiati, le classi dominanti [ottengano] invece la propria sicurezza sopprimendo il mercato”: ciò che Rajan e Zingales descrivono come “scenario da incubo”. Nella nostra economia molecolare, il potere è relativamente diffuso: l’inconveniente è che sono diffusi, e a volte coalizzati, anche gli interessi che si oppongono ai mercati. La concorrenza, di cui il Paese ha bisogno in dosi massicce, deve coinvolgere tutti gli ambiti della società: dalla scuola all’industria elettrica, dai taxi alle banche.
Non esiste dunque una corporate governance ideale da perseguire. Bisogna creare le istituzioni per il funzionamento dei merca i finanziari, beni comuni che gli individui non hanno interesse
realizzare singolarmente. Bisogna indurre un cambiamento culturale, di nuovo atteggiamento verso il rischio, di selezione per merito. E lasciare che il Paese evolva a partire dalla sua realtà, secondo i “geni” dei suoi cittadini. Questo è il compito della politica. “Politics matter”.

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