La politica è senza peccato?

aprile 9, 1998


Pubblicato In: Varie


L’accusa che il Presidente della Repubblica ha lanciato venerdì 28 marzo a quegli industriali “predoni del Sud”, che hanno preso i denari dello stato senza creare lavoro e radicare imprese ha dato luogo a un’accesa ma breve polemica, presto dispersasi nell’ermeneutica del dettaglio – a chi davvero alludesse il capo dello Stato – invece di concentrarsi sulla sua sostanza. Ritengo invece che essa meriti un approfondimento. Scalfaro ha scelto di parlare mentre al convegno di Parma Fossa ripeteva il suo non possumus: non si può accettare che la negoziazione dei contratti di lavoro sia sottratta alla libertà delle parti e sia imposta per legge.

Non sembra improprio né irriguardoso qualificare la dichiarazione di Scalfaro come intervento “in supplenza” a Prodi, che affrontava tesissimo una platea a sua volta attenta e tesa. Irriguardoso sarebbe, semmai, considerare involontaria la coincidenza e archiviare l’intervento considerandolo nel catalogo di quegli ammonimenti morali che il capo dello Stato ama con una certa frequenza dispensare al Paese: il giorno precedente, per esempio, la ripulsa degli eccessi ai quali sarebbe giunto il mercato dei calciatori nel nostro Paese.

Non mi pare più il caso di soffermarsi a discutere dei profili costituzionali che l’attività di “supplenza”, nella presidenza Scalfaro, ha finito per assumere. E’ un fatto che essa, sotto l’incalzare dei tortuosi passaggi dell’infinita transizione italiana, ha spinto il Quirinale sempre più in prima fila nel gioco politico, di fronte a governi che stentavano a nascere o a legislature delle quali erano magari parti della maggioranza – Forza Italia dopo il cosiddetto “ribaltone”, esponenti del PDS in occasione della crisi con Rifondazione nell’ottobre scorso – a richiedere anzitempo lo scioglimento. E’ un fatto altresì, che in Parlamento si stia lavorando a una nuova Costituzione, che in ogni caso vedrà rafforzato ed esteso il ruolo della Presidenza della Repubblica. Alla luce di tutto questo, se non si sbaglia a considerare la sferzata agli industriali come un intervento politico, esso deve poter essere oggetto di discussione e, se del caso, anche di critica senza per questo incorrere in sospetti o dietrologie.
Andiamo al merito, dunque. L’intervento di Scalfaro ha avuto due singolarità. Esso è stato straordinariamente diretto nel bersaglio. E assolutamente indiretto nell’argomento. Diretto, perché tra tutte le diverse parti in gioco al tavolo della concertazione, e cioè governo, sindacati e imprenditori, il capo dello Stato ha deciso di rivolgere i suoi strali solo a questi ultimi.
Indiretto, perché tale è stato l’argomento usato per manifestare la contrarietà all’atteggiamento degli imprenditori in merito al disegno di legge del governo sulle 35 ore, e cioè quello dell’intervento nel Mezzogiorno: indiretto ma pesantissimo dato che di tale storia sono stati richiamati comportamenti particolarmente odiosi.
Che cosa possiamo dedurne? Se si usano argomenti così forti, particolarmente forti devono esserne le ragioni. La stabilità della cornice della concertazione, come delineata dagli accordi del ’93 e del ’96, è evidentemente giudicata dal Quirinale come “bene indisponibile” di un superiore interesse nazionale. Tanto indisponibile da far passare in secondo piano ogni questione di merito. Mentre a rigor di logica un metodo non può essere giudicato a prescindere dalle decisioni che si assumono: sarà un metodo buono se le soluzioni sono buone, cattivo se cattive. E per il Quirinale in questa circostanza a minacciare la “stabilità del concerto” sono, tra tutte le parti in causa, i soli industriali, tacciati di inopportuno “eccesso di difesa” di fronte a un provvedimento – le 35 ore per legge- che tale reazione non dovrebbe meritare. A ben vedere, una tesi che finisce per negare lo scopo “alto” della concertazione, che non consiste nell’incanalare i conflitti sociali, ma nel proporre al Paese intero, anche nella prospettiva del nostro futuro europeo, obiettivi di efficienza, rigore, competitività. Un’ulteriore osservazione va però fatta sullo strumento usato dal capo dello Stato per esprimere questa opinione politica. Uno strumento non solo, come si diceva, indiretto e di inconsueta pesantezza, ma anche in qualche modo eccentrico rispetto allo scopo.

Anche se le circostanze in cui a Milano parlava Scalfaro inducevano a ricordare i Vanoni, i Menichella , i Saraceno, i tempi eroici insomma della progettazione “virtuosa” dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, quei tempi e quei personaggi fanno parte di una storia remota, destinata a non più ripetersi innanzitutto per l’ormai assoluta inattualità dei presupposti culturali che mossero quella generazione a immaginare un certo tipo di intervento pubblico nell’economia.
Le degenerazioni che l’impresa ha conosciuto nel Mezzogiorno – si tratti della chimica trent’anni fa, o degli episodi su cui indagò la commissione d’inchiesta presieduta dallo stesso Scalfaro a seguito delle provvidenze pubbliche per la ricostruzione dell’Irpinia – quelle degenerazioni non hanno alcuna forza polemica verso gli imprenditori di oggi. Al contrario esse affermano la stessa tesi oggi sostenuta da un Fossa o da un D’Amato.
Le degenerazioni sono state il prodotto di come lo Stato e la politica pensarono di organizzare la politica industriale nel Sud: il sistema delle erogazioni e degli incentivi discrezionali, trattati e commisurati caso per caso. E’ stato questo il modo attraverso il quale la politica industriale si è risolta in strumento di corruzione. Lo Stato offrì alle imprese la tentazione di non fare più il proprio mestiere, che è e non può che essere creare profitto e reddito. Le indusse a cambiare il proprio scopo sociale, e invece di spingerle a scambiare merci sul mercato dei prodotti le allettò a scambiare favori nel mercato della politica.
Il mercato, si sostiene soprattutto da sinistra, non e’ un prodotto naturale, sono le regole che fanno il mercato. Bene, furono quelle regole a produrre quel mercato che Scalfaro ha sanzionato. L’offerta di danaro in cambio di progetti inutili, fa emergere chi e’ capace di produrre progetti inutili in cambio di danaro: anche nel mercato delle imprese, l’offerta crea la sua domanda. Ursini, Rovelli, Cefis sono, erano imprenditori in un mercato dove la regola era che veniva pubblicamente premiato chi faceva spendere soldi e non chi li guadagnava. Ed è proprio èper questo che, tornando all’oggi rispetto a quei tempi, gli esponenti più avveduti del Mezzogiorno – e la Confindustria in prima fila – chiedono instancabilmente di passare a politiche di incentivazione dal lato dell’offerta: retribuzioni, contributi, fiscalità, esternalità, non più concesse discrezionalmente, ma automaticamente attivate senza procedure di arbitrio politico.

Se questo fosse stato lo spirito del messaggio del Quirinale, invece di essere dettato dalla preoccupazione che la logica delle parti in causa possa pregiudicare la logica della concertazione, allora esso, più che dagli imprenditori, dovrà essere tenuto in conto dal governo, che si accinge a scrivere il capitolo del documento di programmazione economico-finanziaria sugli interventi nelle zone depresse, e dai miei colleghi parlamentari. Allora, forse, l’intervento di Scalfaro meriterebbe un applauso.

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