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La memoria corta di chi invoca barriere

Pubblicato il 28/03/2008 @ 10:04 in Giornali,Il Sole 24 Ore

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Analisi. Il dibattito sul protezionismo

Papa Paolo III Farnese scomunicava tutti quelli che comperavano allume che non proveniva da Allumiere. Voleva proteggere non la fede dei bravi cristiani, ma i proventi delle sue cave, scoperte da Giovanni di Castro nel 1460 sui Monti della Tolfa, e di cui nel 1500 diede l’appalto ad Agostino Chigi. Noi ricordiamo l’allume dei bastoncini emostatici che usavamo quando ci si tagliava radendosi: ma a quei tempi era indispensabile nella tintura di tessuti e pelli. L’appalto di quella materia prima ricercata fece ricchi, oltre ai Chigi, i Medici e i Grimaldi. E i papi.

“La nuova popolarità del protezionismo, scrive Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera (La coesione batte il liberismo, 26 Marzo 2008), non deriva da un errore della storia, ma dai limiti di quello che Tremonti chiama mercatismo”. Come si vede, ogni epoca storica ha le sue ragioni per combattere il “mercatismo”, ogni Stato ha i suoi mezzi per “scomunicarlo”: la “popolarità del protezionismo” c’è sempre stata.
A differenza di Giulio Tremonti, che fustiga l’iperliberlismo di un Paese, come il nostro, che non ha conosciuto neppure l’ipoliberismo, Mucchetti prende i suoi esempi dagli Stati Uniti: i costi della deregulation finanziaria (il “salvataggio” di Bear Stearns), i costi della “concorrenza senza vincoli” (le big dell’auto che prepensionano per assumere giovani meno pagati e meno protetti), l’iniqua ripartizione dei profitti, tra “salari che restano al palo” e “guadagni di capitalisti e top manager che volano”.

La deregulation finanziaria, la diversificazione degli investimenti ricercata con decorrelazioni sempre più sofisticate, hanno consentito una riduzione del rischio con cui si sono finanziate imprese e progetti. Gli effetti sono giudicati straordinari sia da quelli “sensibili alle sofferenze del mondo” , sia da quelli che celebrano “la religione del PIL”; le “occasioni di riscatto per centinaia di milioni di persone” (in realtà superano il miliardo) sono infatti l’altra faccia della crescita USA, eccezionale per durata e intensità. Si è ora verificata una discontinuità che sarà gravida di conseguenze: il salvataggio dei clienti di Bear Stearns ( perché la banca è stata invece condannata a morte) avrà come contropartita maggiori controlli. Ma il soccorso induce negli operatori la tentazione di azzardo morale, gli interventi inducono nei consumatori la speranza in regolatori onnipotenti. Invece la deregolamentazione deriva anche dalla consapevolezza che le autorità non avranno mai le conoscenze necessarie per un intervento tanto profondo da assicurare stabilità in mercati finanziari diventati così vasti e complessi. E poi, giudicando degli attuali poteri dei regolatori e dell’uso che ne hanno fatto, si tende a dimenticare che solo le bolle che scoppiano fanno storia, quelle il cui scoppio è stato evitato è come se non fossero neppure esistite.

La crisi dei subprime e la riduzione della leva finanziaria avranno conseguenze drammatiche sull’industria finanziaria e su chi vi lavora, alla base e al vertice: altro che “industria protetta che non corre il rischio di fallire”. Il massiccio processo di riscatto obbliga i fondi a vendere i titoli liquidi e a tenere quelli meno liquidi: se i riscatti continuano più di uno salterà. Ma il meccanismo di trasmissione a quella che si suole chiamare “economia reale” è tutt’altro che automatico. E l’80% degli americani sopra i 40 anni ha una casa di proprietà, relativamente pochi sono quelli che negli anni a venire rischiano di perderla.

Che la globalizzazione sia responsabile dell’impoverimento della classe operaia ( è la seconda delle tesi di Mucchetti) è contraddetta da un’ampia letteratura, che ne indica piuttosto la causa nella tecnologia (l’ultimo è il testo di Robert Z. Lawrence, “Blue collar blues”, recensito sul Domenicale del 16 Marzo). La “schizofrenia” in chi è allo stesso tempo consumatore e produttore, non “determina la ritirata del diritto, figlio della politica”, impone al contrario un democraticissimo ridisegno dalle fondamenta dal sistema del welfare, che faciliti le mobilità tra settori industriali e tra professionalità. I 300 piloti per 5 cargo Alitalia, i dipendenti di Malpensa tre volte più numerosi in rapporto ai passeggeri di quelli di altri aeroporti, Fiumicino inclusa, sono certo un problema sociale: figlio del mercatismo? I due macchinisti sui treni sono dovuti al non aver saputo “ricomporrre l’io diviso del cittadino nell’era della globalizzazione?”

I bassi salari (l’ultimo degli esempi di Mucchetti) sono un problema anche di redistribuzione, ma in primo luogo di produttività: da noi è ferma da anni. Per farla crescere non è necessario, come Mucchetti sembra auspicare, avere i sindacati nei consigli di sorveglianza: basterebbe averli in fabbrica a fare contratti aziendali, anziché a Roma a giocare la partita politica del contratto nazionale. E poi l’esempio non sembra tra i migliori: alcuni sindacalisti membri di consigli di amministrazione di alcune aziende tedesche si sono distinti in interpretazioni un po’ eterodosse del “mercatismo”. Se per avere la “coesione” all’interno dell’azienda si allineano gli interessi dei manager con quelli dei sindacati a scapito degli azionisti, si finiranno per preferire strategie che aumentano l’occupazione e riducono l’assunzione del rischio imprenditoriale. Un tipo di “coesione” che, se non c’erano i barbari alle porte negli anni ’70, faceva fallire l’industria americana. E, se non c’erano Andreatta e Van Miert ad arrestarlo, portava al fallimento l’Italia insieme alla sua industria di stato.

Ha ragione Mucchetti: “la nuova popolarità del protezionismo non deriva da un errore della storia”. Deriva dagli errori degli uomini: sovente dalla loro mancanza di memoria.

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Se la coesione batte il liberismo
di Massimo Mucchetti – Il Corriere della Sera, 26 marzo 2008

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