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La libertà multimediale

Pubblicato il 01/12/1994 @ 14:11 in Varie


Qualsiasi governo avremo quando questa nota andrà in stampa, si troverà tra le mani il problema dell’emittenza televisiva. Problema attualissimo, anche per la sentenza della Corte, ma che riguarda un mondo che appartiene al passato; nel prevedibile clamore, scelte che riguardano il futuro potrebbero compiersi di fatto, senza pubblica discussione; scelte che rischiano di farci mancare la via che consentirebbe insieme di far uscire dall’impasse la questione dell’emittenza, di creare in pochi anni un settore industriale del valore di decine di migliaia di miliardi, di ridurre il costo della bolletta telefonica: senza rischiare una lira di danaro pubblico.

Il limite della trasmissione via etere non sta tanto nel numero dei programmi disponibili, quanto nell’essere inevitabilmente generalirsta; può quindi essere finanziata solo o con il canone o con la pubblicità di prodotti destinati a un pubblico largo e perciò poco differenziato; l’ interattività è limitata allo zapping. Invece il cavo, disponendo di un numero di canali praticamente illimitato, consente il comportamento attivo dell’utente, che paga per ciò che vuole vedere o comprare; segmenta il mercato, ne individua le nicchie, offre prodotti e messaggi specifici, soddisfa nuovi bisogni e genera nuovi consumi.
In Italia abbiamo sfruttato oltre il limite fisico la-trasmissione via etere, con una dozzina di reti generaliste visibili sulla maggior parte del territorio nazionale e oltre 2/3 di tutte le reti locali europee: siamo invece i soli, con Grecia e Portogallo, a non avere televisione via cavo. Chi non disporrà di reti interattive a larga banda, sarà tagliato fuori dalla rivoluzione multimediale.
La legge del 1991, che avrebbe dovuto liberalizzare il cavo, manca ancora ‘provvidenzialmente’ del decreto attuativo: e ora Stet si candida a costruire e a gestire la rete nazionale cavo. Per questo propone un sistema sulla carta meno costoso. che dovrebbe poter trasmettere un limitato numero di programmi sui normali doppini telefonici; e, per dimostrarne la fattibilità, sta per lanciare l’esperimento Stream, che collegherà un migliaio di utenze di Roma e Milano: al costo di oltre 5 mila Mld.
La sola idea che, alla vigilia della sua (per ora auspicata) privatizzazione, e della (inevitabile) liberalizzazione imposta da Bruxelles, il concessionario della rete telefonica fissa si annetta il monopolio di quella multimediale, dovrebbe scandalizzare l’opinione pubblica di qualsiasi paese anche solo vagamente liberista. Ma i motivi per opporsi sono assai più specifici.
Il primo riguarda il rischio dell’investimento: che è rilevante, (per l’Italia si parla di 30 mila miliardi), con incertezze su caratteristiche e tempi di diffusione dei servizi da offrire, nonché su alcune scelte tecnologiche (concorrenza con il satellite, opzione tra fibra ottica, cavo coassiale, doppino telefonico glorificato). Perché mai questo investimento deve essere pagato indiscriminatamente da tutti gli utenti telefonici? Perché l’opzione tecnologica deve discendere da una decisione di politica industriale nazionale, anziché essere frutto della libera scelta di investitori privati che valutano e assumono in proprio il rischio tecnico e di mercato? In realtà Stet cerca in ogni modo di mantenere di fatto il monopolio: Stet sa benissimo che l’alternativa c’è, che è stata sperimentata con successo in Inghilterra, dove in pochi anni sono state date 136 licenze di reti-cavo, distribuite tra 24 operatori, nessuno dei quali detiene più del 17 per cento del mercato, creando un settore industriale valutato a 25 mila Mld: interamente finanziato da capitale privato. Ma il mercato è decollato solo quando agli operatori cavo è stata data licenza di fornire anche il servizio telefonico, mentre, per riequilibrare gli effetti della sua posizione dominante, a British Telecom è stato inibito dall’offrire programmi televisivi fino al 2001: e l’accresciuta concorrenza ha fatto diminuire il costo della bolletta telefonica.
Il secondo ordine di motivi deriva dallo specifico delle reti-cavo, la cui dimensione naturale è quella metropolitana: la selettività, caratteristica essenziale della multimedialità, è esaltata dal rapporto stretto con le realtà locali da interpretare e da stimolare, il senso di appartenenza e l’orgoglio cittadino sono il motore per fare decollare le iniziative. Sono quindi le autorità locali, anche in relazione allo stretto rapporto con i cittadini che deriva dalla nuova legge elettorale, che devono avere il potere di rilasciare le concessioni. Individuare le nicchie di mercato, coprirle tutte con specifiche offerte di prodotti e servizi richiede, da parte dell’operatore cavo, una maniacale concentrazione di sforzi: che si avrà solo se questi avrà investito nell’infrastruttura, e che invece si diluirà se l’unità del business verrà spaccata tra chi possiede l’infrastruttura e chi si limita a pagarne i costi marginali.
La scelta è tra due visioni: la prima, centralista, per cui lo sviluppo dell’infrastruttura più importante per il nostro futuro deve essere realizzato in regime di monopolio, con investimenti a carico dell’utente telefonico: l’altra, per cui si deve lasciar libero gioco all’iniziativa privata, attirando capitali e attivando la concorrenza, in trasparenza di costi e senza rischio per il contribuente. Per decidere, non c’è bisogno dell’esperimento Stream: in regime di monopolio, un esperimento può solo dimostrare la fattibilità tecnica. Per 5 miliardi, pare un po’ caro.

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