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La lezione di Minogue utile per noi europei un po’ “asserviti”

Pubblicato il 02/07/2013 @ 12:57 in Giornali,Il Foglio


“Bisognerebbe leggerlo nelle scuole!” Volevo condividerlo con tanti l’entusiasmo che provai leggendo per la prima volta “The servile mind” di Kenneth Minogue. Era il 2010. Ritrovai lo stesso l’entusiasmo quando lo rilessi nel 2013, per scrivere la prefazione all’edizione in italiano per IBL Libri. E’ per quell’entusiasmo che vorrei ricordare oggi il grande filosofo della politica, morto sull’aereo che lo riportava a casa, rientrando da una riunione della Mont Pélérin Society, il club liberale di cui era stato presidente. L’entusiasmo per quella lezione di libertà.

Ken Minogue – attingo dalle sue pagine liberamente, senza virgolettare – offre risposta a una contraddizione in cui quotidianamente inciampiamo: nessuno di noi mette in dubbio il principio democratico, crediamo che la democrazia sia il miglior antidoto a corruzione, tirannide, guerre e povertà; eppure siamo delusi dal suo funzionamento. Minogue lo spiega non distribuendo torti e ragioni a destra o a sinistra, ma individuando il nodo logico dove ha origine la contraddizione: mentre democrazia significa avere un governo che risponde all’elettorato, i nostri governanti pretendono che siamo noi a rispondere a loro, ad adeguarci alle loro prescrizioni, che si tratti di fumare o di mangiare, di risparmiare o di indebitarsi. Teoricamente i governanti sono i nostri rappresentanti, in pratica tendono a trasformarci in strumenti dei progetti che hanno in mente. Dovrebbero creare il quadro giuridico entro cui ognuno di noi possa perseguire la sua idea di felicità, e invece veniamo esortati ad autoriformarci. Non hanno alcun diritto di dirci come dovremmo vivere: la nazionalizzazione della vita morale è il primo passo verso il totalitarismo. Lo Stato occupa lo spazio dei nostri giudizi morali, i governanti aggiungono giudizi morali ai tanti poteri che già esercitano.

Libertà è libertà di decidere come vivere, è quindi incompatibile con uno stato moralizzatore. E’ stata l’autonomia morale individuale a dare alla civiltà occidentale il suo carattere, a farne il motore, nel mondo, di tanta speranza e tanta felicità: il motore si blocca, se questa autonomia viene compressa, se questo elemento costitutivo della nostra umanità viene espropriato dallo Stato. La forma autogestita di struttura morale prodotta dall’occidente moderno è la base della sua libertà. L’agire morale si dissolve nel momento in cui lo Stato si fa carico dei compiti tradizionalmente riservati agli individui: dal welfare alle strutture giuridiche che devono proteggere una o l’altra categoria astratta della comunità da molestie, offese, lesione all’autostima. Sono le condizioni strutturali della “mente servile”, l’opposto dell’individualismo, quale si afferma da sempre nel pensiero europeo. Nella “mente servile”, al linguaggio morale degli individui se ne sovrappone un altro, nel quale essi trovano la propria identità dando appoggio a politiche pubbliche che sono al tempo stesso eticamente obbligatorie e politicamente imperative: il “politico-morale” moralizza la politica e politicizza la vita morale.

Una cosa simile succede se al posto dei cittadini mettiamo gli Stati e al posto degli Stati la costruzione europea. Nata dal senso di colpa, essa è un repertorio di moralità. Si libra verso aspirazioni morali illimitate, si fa paladina del salvataggio del pianeta dal degrado, del contrasto alla povertà del Terzo Mondo, dei diritti umani: quindi giustizia sociale e politiche redistributive per finanziarla, responsabilità sociale d’impresa, modello sociale europeo da esportare nel mondo intero. Per indirizzare gli Stati sulla via giusta, ci vogliono le istituzioni internazionali: il progetto politico-morale presuppone una direzione centrale, è fondamentalmente statalista. Ma quando si tratta di recuperare competitività e di favorire la crescita, è sugli individui che si deve poter contare. Ed è contradditorio chiedere loro di impegnare se stessi e le proprie risorse nel futuro, e poi comprimere i loro spazi di libertà; fare appello alla loro struttura morale e poi esautorare le strutture nazionali in cui essa si è formata, a favore di un’entità sovranazionale astratta e distante.

Minogue è un conservatore, ma non nel senso che guarda indietro. Sa – e finisco virgolettando- che “la nostra presunta cultura è mera apparenza, ciò che rimane delle reazioni morali del passato. E’ superata nel momento stesso in cui viene riconosciuta. Non entriamo mai due volte nella stessa cultura.”

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