L’illusione dell’utilitarismo

marzo 20, 2011


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di Alberto Mingardi

Minogue rilancia la battaglia contro le pretese della politica

In inglese, “liberalism” è una parola ambigua, evoca una certa tradizione politica e il suo contrario. Già Schumpeter notava che ad appropriarsi dell’etichetta erano stati proprio i più accesi nemici del libero mercato. Per Giovanni Sartori, “un liberale americano non sarebbe chiamato liberale in nessun Paese europeo; lo chiameremmo un radicale di sinistra”. Nel 1963, Kenneth Minogue provò a dare un senso a questa polisemia in un libro che è un piccolo classico, “The Liberal Mind”, ora meritoriamente tradotto per i tipi di Liberilibri.

Il senso del saggio, se si vuole, è tutto nel titolo: nel riferimento a una “mente” liberale, a un insieme di atteggiamenti, di convinzioni e di inclinazioni che uniscono sensibilità pure divergenti al momento di indicare politiche concrete, in una lettura al fondo omogenea dei fenomeni sociali.

Il liberalismo s’impone, insinua Minogue, proprio perché implica uno stacco con il passato, la recisione di tutte le corde che imbrigliavano la società ai tempi dell’ancien régime. Ma talvolta quest’ansia di cambiare s’inalbera in un cambiare per il cambiare, che rifiuta qualsiasi ordine esistente per rammendare un ordito sociale che appare, inevitabilmente, imperfetto. E l’uomo liberato dalle catene del caso, per gratitudine deve acconciarsi a sottostare ai dettami dei suoi liberatori.

Pubblicato quando l’autore aveva trentatré anni, “La mente liberal” vede Minogue, professore di scienza politica alla London School of Economics (dove ora è emerito), procedere ad eleganti sciabolate. “Il modo liberal di concepire l’uomo”, scrive, “racchiude tutte le attrattive di un kit di costruzioni per bambini. Partendo dal congegno fondamentale dell’uomo inteso come creatura che desidera, è possibile costruire qualsiasi tipo di essere”.

Quale sia stato il punto d’arrivo, è presto detto: molti liberali hanno cominciato “a pensare che la società fosse un po’ come una infermeria, dove le persone sane passano il loro tempo a prendersi cura dei sofferenti”. In quest’infermeria, la salute dei sani va sacrificata, redistribuita, a vantaggio di chi sano non è: la più ampia salute, per il maggior numero.

Se il “liberalism” (questa volta, scritto senza “o” finale) passa dall’essere una filosofia volta sostanzialmente alla limitazione dei poteri pubblici, ad un sistema di idee che ne sorregge l’espansione, è perché evolve la sua visione della sfera dei desideri umani che meritano, in qualsiasi caso, di essere soddisfatti. Per Minogue, il peccato originale, che ha permesso alle degenerazioni del pensiero liberale di assumere corpo, sono state “le sue progressive astrazioni”. “Si ripete la vecchia storia per cui i termini astratti di una dottrina politica sviluppano in forme imprevedibili”. L’idea di un uomo decontestualizzato, spogliato della concretezza del suo essere nella storia, arriva ad approssimare quella di un “animale che desidera”.

I pilastri su cui si sono innestate le dottrine liberali sono due. Da una parte, un pregiudizio contro i pregiudizi: ogni cosa, ogni assetto di potere, ogni congerie di relazioni sociali meritano di essere sottoposti al vaglio della critica. Dall’altra, la tensione alla ricerca di “un genere di vita sociale che fosse esente dall’inefficacia, dallo spreco e dall’infelicità” che hanno caratterizzato qualsiasi forma di associazione umana. Minogue chiama l’uno il pregiudizio libertario, l’altro il pregiudizio salvazionista. È la prevalenza di quest’ultimo, quando si salda con la riduzione dell’uomo alla vuota silhoutte di un “agente sociale”, a determinare la lenta evoluzione del “liberal” da nemico del dispotismo ad aspirante tecnocrate.

Rileggendo il suo libro di quarantasette anni fa, un Minogue meno tranchant nella nuova prefazione ammette che il liberalismo classico, volto alla limitazione del potere, aveva cara quella polarità che Thomas Jefferson scolpì nella dichiarazione d’indipendenza americana: libertà e ricerca della felicità. Quest’ultima era, come ciascuno sa dai suoi scampoli d’esperienza, impresa travagliata e complessa: non la risultante di pochi consapevoli accorgimenti dei legislatori, ma sfida della vita. Spesse volte, inesorabilmente persa.

L’ambizione dell’ingegnere sociale è la perfezione: scacciare l’ombra nera del fallimento dalle cose umane. Per farlo, deve affogare l’idea di felicità nella soddisfazione di alcuni bisogni, di alcuni desideri. L’animale che desidera, diventa l’animale che desidera senza sforzo. Ma questa è, a tutti gli effetti, una contrazione dello spazio morale. Il primo avversario di Minogue, nel tour de force di “La mente liberal” è l’utilitarismo, con la sua aritmetica sociale. L’illusione che si possa raggiungere una certa “distribuzione sociale” della felicità serve a rimpannucciare l’arbitrio di chi comanda. “Il pensiero liberal”, chiosa oggi, “incoraggia la dipendenza dal governo e promuove l’autocommiserazione e l’obbedienza, piuttosto che virtù come la fiducia in se stessi”.

Scrittore raffinato, appassionato polemista della storia delle idee, Minogue non può lasciare indifferenti. Con gli anni, ha un poco aggiustato il tiro, e pare meno propenso a una genealogia del liberalismo che rinfacci ai padri (Locke, Hume, Smith) i peccati dei figli. Dal suo libro, il lettore non può che trarne una potente vaccinazione contro i più abusati, e pericolosi, temi illuministi.

Quale sia l’ammonimento cruciale, è presto detto. Mai pensare che sia la politica a poter ridisegnare la società.

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