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L’euro ok? Vabbè, ma senza identità no Europa

Pubblicato il 05/12/2012 @ 09:42 in Giornali,Il Foglio


Non tutto si può ridurre a previsioni politico-economiche, per quanto ottimiste.

Al culmine della crisi greca, in un lungo appassionato articolo sulla Frankfurter Allgemeine, Martin Walser dipinge come “uno scenario di orrore” quello di un’Europa senza euro; cita Hölderlin, per mostrare come il suo tedesco trovi naturale espressione nella purezza della metrica greca. Questo per dire che non tutto si riduce a previsioni politiche, analisi economiche, tassi d’interesse: perché i fatti economici sono influenzati dalle opinioni degli uomini, e il futuro dei paesi è determinato dalle loro visioni.

A ricondurre tutto a una disputa ideologica tra euroentusiasti ed euroscettici, si rischia di perdere di vista quello che fa dell’Europa il posto del mondo più fertile di idee e più ricco di storia. Un’identità difficile da definire quella europea, come sanno quelli che ci hanno provato: esistono molte identità in competizione tra loro, anzi l’incertezza sulle basi della sua cultura sembra essere essa stessa parte dell’identità europea. Esiste una Zivilization europea, che si nutre di diverse Kultur, di diverse eredità. La narrativa di Schuman, un’Europa che non fosse più teatro di guerre, nel Dopoguerra era facilmente comprensibile e definita. Quarant’anni dopo sarà decisiva un’altra frontiera, quella dell’Oder – Neisse tra occidente libero e oriente comunista. Liberati dalla dominazione sovietica, i paesi dell’est si riconoscono immediatamente europei: ma così cambiano i confini europei, la narrativa europea. Anche sotto il comunismo, ricorda Vaklav Klaus, si giustificavano i reali problemi con la considerazione che “almeno così si vive in pace”: ed erano “falsità e menzogna impossibili da sopportare”. L’identità si definisce con i confini: ma in Europa c’è incertezza sui confini interni.
La Repubblica ceca si separa dalla Slovacchia, gli stati baltici ergono barriere verso la Russia, l’Ucraina, in futuro il secondo stato europeo per dimensione, è attraversata da un confine tra la zona europea e la zona più vicina alla Russia. C’è incertezza sui confini esterni; di fronte all’immigrazione dal nord Africa, l’Europa tende a proteggersi come una fortezza.
Un’Europa che vada dall’Atlantico agli Urali o addirittura a Vladivostok, non perderebbe la propria identità storica?
Con la Turchia, si aggiungono altre complicazioni: la presenza ormai da un paio di generazioni di grandi comunità di origine turca, la religione islamica, il genocidio armeno. Il timore della presenza della Turchia modifica il concetto di Europa, l’attesa per la decisione dell’Europa modifica i comportamenti in Turchia: si pensi a Ceylan in “C’era una volta in Anatolia”.
L’identità si costruisce anche con le narrative storiche. Quello che Nietzsche chiamava uso monumentale della storia ebbe un grande ruolo nella formazione degli stati nel Diciannovesimo secolo, e nel Ventesimo fu largamente usato da fascismo e nazismo. Al suo posto, subentra un uso democratico della storia: con le parti più buie del suo passato l’Europa si fabbrica un “altro”, che connoti l’identità odierna di valori europei. Anche lì incontrando difficoltà irrisolvibili: solo le vittime dei tedeschi potranno avere monumenti commemorativi o anche i propri morti? Le vittime del comunismo non hanno diritto a essere degnamente commemorate? E’ accaduto tutto in quella parte di Europa, tra centro ed est Europa, tutto è partito da lì: i crimini nazionalsocialisti e la deportazione dei tedeschi al di qua dell’Oder-Neisse, il leninismo da San Pietroburgo e lo stalinismo da Mosca, l’olocausto e l’avanzata dell’Armata rossa, l’amministrazione militare sovietica e la satellizzazione.
La memoria europea finisce per andare a sbattere contro un problema insolubile: tutte le vittime hanno diritto alla propria voce, ma nell’atomizzazione delle vicende singole o di gruppi, si perde il senso della storia. In fondo non c’è nessuna strada di comune ricordo che porti da Auschwitz al Gulag.
E questi sarebbero ragionamenti da euroscettici? L’Unione Europea è stata un grande successo, ci ha dato decenni di crescita. E’ stato l’euro, con la sua ambizione di nation building, con i suoi difetti di costruzione, a mostrare – quando è investito dallo choc della crisi del debito – le sue incongruenze e a provocare una crisi senza precedenti. Ormai è chiaro che si riesce a mantenere la Grecia dentro l’Eurozona soltando mentendo sui costi per i contribuenti europei; che il problema della Grecia in Europa è subordinato al risultato delle elezioni nazionali in Germania; che le statistiche dimostrano che, mentre il mercato unico ha dato ai paesi d’Europa un decennio di interazione nella crescita, l’euro ha ampliato le distanze tra i paesi che vi sono dentro e ha invece avvicinato paesi che, pur non facendone parte, hanno culture più simili tra loro.

Il disegno costruttivista (e datato) di Monnet
Discorsi da euroscettici?Un disegno così esplicitamente costruttivista come quello di Jean Monnet all’Onu nel 1952 – “il popolo europeo deve essere condotto verso un superstato senza che si renda conto di quello che gli succede” – era un lusso da giorni sereni. Ma quando, per uscire dalla crisi, è necessario chiedere a tutti di mobilitare le proprie risorse, materiali e intellettuali, non serve il miraggio degli euroentusiasti, non demos europeo miracolosamente sorgente dall’elezione popolare del presidente di un lontano Parlamento: è invece necessario fare leva sulle identità vive, su quanto la storia ha sedimentato nella memoria e nelle coscienze; e contare sulla tenuta dei rapporti sociali, politici, culturali del proprio demos.

Pubblicato dal Foglio a commento di “Com’è che l’euro ce la fa?”
articolo di Simon Nixon pubblicato sul Wall Street Journal del 3 Dicembre

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