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Italianità? Parliamo di sviluppo

Pubblicato il 20/03/2011 @ 16:45 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Rendere le imprese non contendibili può allontanarne la crescita

Ieri Bulgari venduta alla Lvmh di François Arnault, oggi Parmalat sotto attacco di Lactalis; e prima ancora Gucci e Valentino, il pendolino e Giugiaro, Perugina e Galbani: l’Italia terra di conquista? Non insensibile al grido di dolore, il Governo invoca la reciprocità e convoca l’ambasciatore: il decreto che chiude le frontiere è già pronto. Presi dalle celebrazioni per l’unità d’Italia, abbiamo dimenticato quella d’Europa, nata per evitare l’escalation delle ritorsioni e cresciuta con la libertà dei mercati?

Alla mossa di Tremonti vien da rispondere con una provocazione: se il controllo di una nostra industria passa in mano straniere, è un bene o un male? Ovviamente guardando alle imprese reali, nello stato in cui oggi si trovano, non alle imprese immaginarie, nello stato in cui potrebbero trovarsi se fossero state diversamente gestite. Fondiaria e Edison di oggi potrebbero finire in mani straniere per ragioni che fanno tutt’uno con la storia del nostro capitalismo, e del modo in cui Mediobanca difese le grandi famiglie anche oltre la fase di più pervasiva ingerenza dello Stato. Se Alitalia finirà come partner regionale di Air France anziché membro alla pari di un grande carrier europeo, sarà per le ragioni politiche che prima l’hanno cresciuta nell’inefficienza e poi l’hanno sfruttata come strumento di campagna elettorale, a spese dei contribuenti. Telecom, azzoppata da valutazioni esorbitanti e da operazioni finanziarie sbagliate, è mantenuta italiana a prezzo di un sostanziale immobilismo. Ai casi in cui il vincolo dell’italianità del controllo ha segnato negativamente il destino delle aziende, si dovrebbero aggiungere le occasioni mancate per lo stesso motivo, come Autostrade Abertis. Tutte storie con un’origine in comune: la preoccupazione di salvaguardare l’italianità di un’impresa che induce a costruire barocche architetture finanziarie per renderla non contendibile, e a strategie che si rivelano perdenti. Finché la vendita che si voleva evitare diventa, per molte di esse, l’unica soluzione possibile.

Tutt’altra cosa è chiedersi perché sono probabilmente pochi, in relazione alle dimensioni della nostra economia, i casi contrari, gruppi e istituzioni finanziarie che acquisiscono il controllo di aziende straniere: siamo più sovente prede che predatori. La globalizzazione abbatte le barriere nazionali, consente economie di scala che favoriscono le imprese di maggiore dimensione, rende disponibili i capitali necessari. Perché imprese nostre, che pure operano con successo anche fuori dai confini nazionali, trovano più conveniente accettare limiti alla propria crescita, pur di non rischiare il controllo? Fanno scandalo le malversazioni che distruggono ricchezza: ma quante sono le occasioni di crescita perse per timori ed esitazioni?

Nel valutare convenienze e rischi, contano anche le visioni di sé nel mondo, culture e ideologie. L’ossessione del controllo è path dependant , dopo mezzo secolo di protezionismo e autarchia e un altro mezzo secolo di presenza massiccia dello Stato nell’economia. I tempi cambiano, l’ossessione rimane: se per difendere l’italianità con interventi pubblici oggi mancherebbero pure i soldi, lo Stato ci mette la moral suasion; se neppure questa basta, la decretazione d’urgenza. Se i nodi dell’accrocchio Edison EDF vengono alfine al pettine, e l’accrocchio municipale di A2A rischia di uscirne male prima delle elezioni, il ministro Tremonti ordina lo stop di un anno: poi si vedrà. Per proteggere Parmalat dai fondi esteri, il milleproroghe pone un tetto alla distribuzione dei dividendi; i rumors di Lactalis fanno resuscitare la proposta della fusione con Granarolo, replay di Alitalia Air One, con tanti saluti alla concorrenza; la partecipazione di Lactalis fa diventare il latte prodotto strategico, con tanti saluti al mercato unico.

Dalla politica arriva, forte e chiaro, il messaggio che il vincolo di proprietà prevale sull’obiettivo dello sviluppo. Sui giornali, perfino su quelli della borghesia imprenditoriale, commentatori teorizzano le ragioni per cui è bene che alle aziende a controllo pubblico, dall’Enel a Finmeccanica, dalle Poste alle Ferrovie, non venga a mancare un solido ancoraggio al Tesoro, o alla Cassa Depositi e Presiti, o ai comuni, o alle Fondazioni bancarie. Né dà scandalo se l’”ancoraggio” concretamente si rivela essere quello di partiti e potentati alle posizioni chiave, che se le disputano senza pudore: con tanti saluti all’efficienza.

Chi indica agli imprenditori italiani che il loro interesse può essere servito meglio da ambiziosi obbiettivi di crescita anziché da una cauta diversificazione di portafoglio, che si può andare più lontano ponendo a garanzia del controllo la propria capacità piuttosto che il conto dei diritti di voto? Chi può accompagnarli in questo percorso, quando il nostro sistema finanziario, mancando intermediari quali i fondi pensione, è al 100% bancario, di banche che si vantano di avere il territorio come radicamento e il Paese come missione. Se il proprio orizzonte è il campanile, difficile indicare agli altri il mondo.

Sono tante, e l’ha ricordato Alessandro Plateroti ieri su questo giornale, le ragioni che ostacolano la crescita. Ma alla luce di questo episodio, c’è da sperare che al prossimo convegno o stati generali in cui si discetta di stimoli all’economia e di “frustate” per la crescita, qualcuno si alzi e indichi quanto le barriere, anche culturali e ideologiche, erette per difendere imprenditori e aziende del nostro sistema industriale, finiscono per frenarne lo sviluppo.

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