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Interesse pubblico e diritto al lavoro: un conflitto?

Pubblicato il 16/10/2021 @ 07:24 in Giornali,Il Foglio


Al direttore.
Da quando ci sono i vaccini, ho ripreso le settimanali cene a casa mia con amici romani conosciuti nei miei dodici anni da senatore. Ciascuno di loro dà per scontato che io garantisca che tutti siano vaccinati. Sto contribuendo a un errore politico, come teme l’Elefantino del 14 ottobre? Sono davvero in conflitto l’interesse pubblico e… il diritto alla cena? Il lavoratore vaccinato ha il diritto di non avere accanto a sé dei non vaccinati: è un diritto riconosciuto dalla legge, che pone in capo al datore di lavoro la responsabilità di garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro. E se insieme a Ferrara si sospetta che impedire a chi non ha il green pass o equivalente di andare in fabbrica o in ufficio sia qualcosa “che assomiglia molto a un abuso”, o il governo dà una manleva ai datori di lavoro riguardo alla salubrità dell’ambiente di lavoro (cosa ovviamente assurda) oppure gli dà i mezzi per non ammettere i non vaccinati o non tamponati. Etica? Diritto formale.

Risposta a Giuliano Ferrara, Il Foglio – 15 ottobre 2021

Un errore politico?

Il green pass mette in conflitto interesse pubblico e diritto al lavoro. Caro Draghi, occhio

Il dubbio è che si stia commettendo un errore politico, dunque peggio che un crimine. I moralisti, esperti in errori politici perché non distinguono i due campi dell’etica e della politica, oggi dicono: non vi siete vaccinati, che è gratis, e allora non rompete e pagatevi voi il tampone, non vogliamo che le nostre tasse siano spese per le ubbie e le ansie di qualche milione di dementi. I moralisti oggi amano definirsi liberali, e questo è un abuso di titolo. I liberali infatti sanno che il diritto è formale, non sostanziale. Puoi essere demente quanto si vuole (diritto sostanziale) ma non c’è un obbligo a vaccinarsi, anzi, c’è il diritto di fare l’opposto (diritto formale). Ora succede che il governo, e se è per questo il Parlamento, decidono, in una situazione di emergenza, qualcosa che è in conflitto con il diritto, l’unico diritto contemplabile in una democrazia liberale: se non hai un green pass, se non ti sei vaccinato, non puoi andare a lavorare e ricevere il tuo salario. Puoi fare un tampone, soluzione alternativa, ma te lo devi pagare (e questo comma ha già le sue brave eccezioni, perché una circolare dell’Interno dice cose opposte quanto alla necessità di non paralizzare il porto di Trieste e altre attività decisive e alcune industrie di stato si prodigano per sollevare dal costo del tampone i loro dipendenti). Nonostante opposizioni a questo editto, anche nella maggioranza che lo sostiene, il governo Draghi, unico in Europa a prendere una decisione tanto notevole, ha voluto procedere. Confindustria era favorevole, perché la preoccupazione per una nuova ondata epidemica che stroncherebbe la ripresa passa sopra tutto il resto; i sindacati erano dubbiosi all’insegna del “non si può pagare per lavorare”, apparente buonsenso. E’ un errore politico? C’è da domandarselo. In termini di diritto è una cosa che somiglia molto a un abuso. Ma era percepito talvolta come un abuso, in questo senso, anche impedire ai runner di correre in un parco o stabilire che potevi uscire di casa due volte al giorno non oltre i duecento metri dall’abitazione. Con la differenza che era una norma eguale per tutti, una protezione a salvaguardia di una comunità afflitta da una crescente, esponenziale, epidemia. Adesso tutti concordano nel dire che con cinquanta milioni di italiani vaccinati e detentori di un green pass i pericoli di una ripresa dell’epidemia sono di gran lunga inferiori a quelli di un anno fa. Si ha una relativa e talvolta imbarazzata fiducia sul fatto che la minoranza dei non vaccinati possa essere riassorbita con un uso flessibile della norma contestata, “no pass no lavoro e no stipendio”. E se invece le cose si mettono male? Se gente comune che lavora nel privato e nel pubblico, con la solidarietà di molti detentori di green pass, organizza una protesta sociale diffusa, fino al blocco di vasti settori dell’attività produttiva e di intermediazione commerciale, per non parlare della Pubblica amministrazione, che facciamo? Uno si augura che non succeda. Che le proteste rientrino. Che prevalga il buonsenso e alla fine la notizia sia quella di un comportamento ordinario e disciplinato della stragrande maggioranza dei lavoratori, di soluzioni parziali per chi è fuori dal mainstream, di aggiustamenti in corso d’opera e, magari, di un impulso forte a nuovi esiti positivi della campagna vaccinale. Ma resta un dubbio, che ricalca il dubbio sull’esito del 15 ottobre prossimo venturo e giorni seguenti. Era necessario questo comportamento o è un errore politico da eccesso di zelo? Questo governo è decisionista e politico, non tecnocratico, si fonda su una maggioranza di emergenza che ha retto già a molte prove, è guidato da un tecnocrate che conosce la politica meglio di legioni di professionisti. La volontà di escludere un riaccendersi dell’epidemia che sarebbe costosissimo per la ripresa è forte, ma anche inglesi francesi tedeschi spagnoli e persino portoghesi, e in Portogallo e altrove hanno proclamato praticamente la fine di ogni restrizione, vogliono evitare quello che sarebbe il peggio. Nessuno però è ricorso a un atto estremo che mette in conflitto l’interesse pubblico e il diritto al lavoro e al salario. Hanno fatto un errore politico loro o lo abbiamo fatto noi? Si può rimediare? Si può mettere l’accento sulla provvisorietà e transitorietà della misura, tamponarla, per usare un termine non solo medico, con una serie di contromisure che tutelino, più che i moralisti, coloro che sono preoccupati per la tenuta civile del paese? Sono domande che faccio a titolo personale. Qualche volta bisogna dubitare anche se si sia come noi sudditi disciplinati dello stato di emergenza.

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