Da professori, davano voti; da ministri credono di impersonare lo stato pedagogo. Aveva cominciato Tommaso Padoa Schioppa a prendersela con i ragazzi “bamboccioni”, poi Elsa Fornero li aveva trovati un po’ “choosy”, adesso Enrico Giovannini li bolla come “inoccupabili”. Questa volta l’occasione la dà un rapporto dell’Ocse da cui risulta che molti ragazzi italiani “non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. E giù con le polemiche. Che però sono tutte sul merito delle affermazioni, non sul fatto di farle. Tutti a chiedersi se il “voto” sia giusto, nessuno a chiedersi se sia giusto che diano il voto.
Perché lo stato pedagogo lo è davvero, nel senso che l’istruzione è pubblica, che c’è un ministero che vi sovraintende, che, nella quasi totalità, è fornita da dipendenti dello stato in scuole dello stato secondo programmi definiti dallo stato. E’ quindi lo stato che, per usare le parole del ministro, “esce con le ossa rotte” dal rapporto Ocse. Quindi dovremmo essere noi contribuenti a chiedere conto di come il governo impiega i soldi che gli diamo perché gli insegnanti provvedano a dare ai ragazzi non solo “le conoscenze minime” ma “il capitale umano su cui investire per il futuro”. Chiunque abbia figli in età scolare può sciorinare una ricca aneddotica di assenze, di discontinuità, di svogliatezze, di imperizie: il rapporto OCSE non stupisce troppo. Invece cercano di convincerci ripetendo che la nostra scuola è una delle migliori del mondo, che abbiamo qualche problema con le medie inferiori, che sugli istituti tecnici dobbiamo far qualcosa, ma che le nostre elementari e i nostri licei ce li invidiano tutti.
Per Elena Lattuada, segretario confederale della CGIL, il problema sono come al solito le risorse. E’ vero che sono state tagliate ancora l’anno scorso, ma secondo le statistiche abbiamo una rapporto allievi/docenti tra i più bassi: sono i sindacati quelli che si oppongono a ridurlo. E’ da lì che vengono le resistenze ad ampliare l’autonomia degli istituti, a dare ai presidi facoltà di assumere e licenziare gli insegnanti, a premiare i migliori tra loro. Sono poco più che simboliche le risorse premiali che il ministro Gelmini era riuscito a salvare. “Il mondo in cui viviamo” è un mondo ipercompetitivo: verso quel mondo la scuola o è ideologicamente ostile o si sente concretamente inadatta. In ogni caso un’isola sostanzialmente egualitaria, dove il merito è guardato con sospetto, e si dubita che l’autorità sia legittima.
Se lo stato non è capace, sembrerebbe ragionevole delegare le responsabilità, dare agli istituti la possibilità di differenziarsi tra loro, e ai genitori quella di scegliere dove mandare i propri figli. Come funziona? Col buono scuola, di importo pari alla quota delle proprie imposte che va a finanziare la scuola: ogni genitore lo versa direttamente alla scuola che ritiene più adatta al tipo di educazione che vuole per suo figlio. “Liberi di scegliere” come spiega Milton Friedman.
Naturalmente il sindacato farebbe le barricate. Ma non sarebbe il solo, a opporsi ci sarebbe anche una larga parte dell’opinione pubblica: si salderebbero corporativismo, scorie del ’68, ideologia dello stato pedagogo.
E allora non lamentiamoci se i ministri dan la colpa ai ragazzi. E’ più comodo. In fondo in fondo, perfino più popolare.
Tweet
ottobre 10, 2013