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Incivilirli o cacciarli?

Pubblicato il 29/08/2018 @ 19:46 in Giornali,Il Foglio


Al direttore.

Incivilirli, come vorrebbe Orsina, o cacciarli, come esorta a fare Panebianco? Quello che fanno – e quello che non fanno – non può che portare a un deterioramento della condizione economica del paese: grave, ma insufficiente a cacciarli e incapace di incivilirli. Quello che inevitabilmente farebbero per nascondere il loro fallimento, questo sì che sarebbe veramente terribile. E poiché può accadere molto presto, non resta che cacciarli prima che succeda. Il Pd è quello a cui guardano sia Panebianco sia Orsina: chiami a raccolta quanti, con la loro inventiva e il loro lavoro, tengono ancora in piedi questo paese. Abbandonare senza rimpianti e con intransigenza quanti pensano che i Cinque stelle covino ideali comuni alla sinistra (la teoria della costola-della-sinistra 2.0) è la parte facile; quella difficile è liberarsi dell’antiberlusconismo (e del berlinguerismo di cui è la reincarnazione). Ma se non si incomincia da lì, tutte le geremiadi sull’assenza di un’opposizione sono puro flatus vocis.



“Non rassegnarsi allo sfascio”. Panebianco replica a Orsina
di Valerio Valentini, 28 agosto 2018

All’idea che a Palazzo Chigi sia arrivato Romolo Augustolo, che la rovina sia imminente, che insomma ci si debba rassegnare all’arrivo dei barbari, e provare al massimo a incivilirli, Angelo Panebianco, politologo, storico opinionista del Corriere della Sera, si ostina a non cedere. “Il compito di sgrossare Odoacre, in ogni caso, lo lascio volentieri al mio amico Orsina. Io piuttosto faccio armi e bagagli e me ne vado”. Un disimpegno, a ben vedere, che però è solo apparente. Perché per Panebianco si tratta semmai di non arrendersi a “letture troppo deterministe”, e concentrare gli sforzi in un’altra direzione: “Io credo che chi si oppone a questa improbabile alleanza di peronisti e putiniani che oggi ci governa dovrebbe spendersi piuttosto affinché qualcosa di alternativo, qualcosa che ora francamente stenta a intravedersi, possa maturare e crescere, fino a riconquistare una qualche egemonia nel paese”. Impresa ardua, certo, ma tant’è: “La via è stretta, senza dubbio”, riconosce col tono, se non distaccato, comunque freddo: di chi, insomma, riflette sulla lotta politica che potrà essere senza alcuna voglia di prendervi parte in prima persona. “Ma le altre soluzioni – aggiunge – non mi convincono molto”.

E tra le altre soluzioni, appunto, c’è quella che Giovanni Orsina ha proposto proprio sulle pagine del Foglio, venerdì scorso. Ammettere che Roma è capitolata, e che ricostruirla uguale a prima sia impossibile, e tentare allora di romanizzare i barbari: questo sostanzialmente auspicava, pur tra i dubbi che l’intelligenza gl’imponeva, lo storico romano. Panebianco, che pure con Orsina condivide l’affezione ai valori liberali, dice invece che “no, pensare che non ci sia altra strada se non quella di ricostruire un bipolarismo tutto interno al campo sovranista, con la Lega e il M5s a costituire rispettivamente la nuova destra e la nuova sinistra, non mi convince. Orsina dà per scontato che il declino del mondo occidentale sia un fatto acquisito e irreversibile. Ma se così fosse, tanto meglio preparare il passaporto per la Papuasia: perché io a insegnare a Salvini e Di Maio i rudimenti dello stato di diritto proprio non mi ci vedo”. E del resto, se questo fallimento dell’Occidente sia davvero definitivo, secondo Panebianco, docente di Scienze politiche all’Alma mater della sua Bologna, non dipenderà solo dalla gravità delle convulsioni politiche nostrane. “Credo anzi – dice – che tutto si deciderà a Washington: è quello l’epicentro della nostra crisi, è stata la vittoria di Donald Trump a dare forza ai populisti europei. E dunque tanto del nostro destino si determinerà lì: se negli Stati uniti dovesse vincere di nuovo il magnate newyorchese, se l’allontanamento dell’America dall’Europa proseguirà, allora sì, davvero tutto sarà perduto, l’idea di società aperta si rivelerà fallace e ci avvieremo tutti verso regimi sostanzialmente autoritari: e Orsina potrà dire di averci visto giusto. Ma fino ad allora – spiega Panebianco, con una pacatezza che lascia però trapelare una speranza, un accenno di ottimismo – non credo si debba cedere al fatalismo”.

D’altra parte, ci tiene però subito a precisare Panebianco quasi a sconsigliare il ghigno fogliante di chi invece ad accettare con rassegnazione il grilloleghismo non ci sta proprio, “non credo neppure che si debba considerare il M5s e il Carroccio come un blocco unico, indistinto. Certo, ci sono tra i due partiti evidenti sintonie, specie su alcune convinzioni di fondo, su un certo modo d’intendere la democrazia, il ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale, l’Europa. Ma persistono anche differenze pesanti. Lo statalismo grillino è condiviso, ad esempio, solo in parte dalla Lega. Senza contare che poi radicalmente diverso è l’insediamento sociale e geografico delle due forze: radicata al nord una, votata per lo più al sud l’altra, in un’Italia che per la prima volta, dopo settant’anni di Repubblica, si ritrova ora senza un mediatore politico tra il settentrione e il mezzogiorno. Lo è stata la Dc, che aveva i suoi feudi in Veneto ma anche in Sicilia, e lo è stato, con dinamiche analoghe, anche Berlusconi. Ha provato ad esserlo il Pd, poi, quel mediatore; e ora non c’è più nessuno che interpreti quel ruolo. I due estremi della Penisola, con tutte le loro differenze, hanno oggi referenti diversi, e questo inevitabilmente implica delle incompatibilità nelle strategie politiche dei due partiti: non a caso una propone la flat tax, l’altra il reddito di cittadinanza”.

E dunque, ci spiega Panebianco, semplificare troppo non si deve. “Lega e M5s non le considererei troppo sbrigativamente due facce della stessa medaglia. Ma di certo – prosegue – non credo affatto che si possa accettare l’analisi di chi suggerisce di ricostruire dentro il perimetro del sovranismo le contrapposizioni classiche, seppur aggiornate ai tempi dell’oggi, della politica novecentesca. Mi auguro invece che si lavori perché una opposizione al populismo si sviluppi progressivamente; ma per farlo, occorrerebbe innanzitutto abbandonare la vocazione proporzionale di chi non si riconosce nelle forze sfasciste”. Problema di mentalità, quasi, più che di assetto legislativo. “Sì, perché è vero che l’errore drammatico di Renzi e Berlusconi è stato quello di credere scioccamente che bastasse sopprimere il maggioritario per evitare ai Cinque stelle di affermarsi, non ricordandosi che invece proprio il proporzionale di Weimar è stato il terreno in cui ha messo radici il nazismo”. E però, continua Panebianco, “non è solo questione di legge elettorale. E’ semmai un problema connesso all’identitarismo quasi settario che in tanti, tra i moderati, coltivano. Tutti pensano a consolidare il proprio consenso tra il proprio elettorato di riferimento, accettando a priori che quell’elettorato sia assai ristretto, preoccupandosi solo della propria rielezione”. E l’esempio da addurre a convalida della tesi giunge a Panebianco dalle polemiche di questi giorni. “Tu puoi, e anzi devi – dice – criticare la politica sui migranti di Salvini, a patto però che non finisci col ripudiare anche quella di Minniti. Insomma, lo dico a Emma Bonino e agli altri sostenitori dell’accoglienza indifferenziata: affermando che è sbagliata qualsiasi forma di selezioni, insistendo con la strategia dell’umanitarismo buonista, non mi pare che si riesca a costruisce una posizione vendibile, cioè maggioritaria: ci si rivolge semmai ai quattro gatti che sono convinti che tutti siano i benvenuti in Italia. Ma la paura legata all’integrazione esiste ed è diffusa, nel paese: e non puoi non tenerne conto, ma anzi devi comprenderla e semmai, questo sì, indicare delle soluzioni ragionevoli. Ribadire che noi siamo noi, e siamo contrari a loro per quelli che essi sono, mi sta bene, ma solo a patto che questa battaglia la si conduca, sempre, coi piedi ben saldi nel realismo”.

E però che fare, ora, da un punto di vista operativo? Intanto, suggerisce Panebianco, aspettare. “Non mi sembra il caso di disperarsi per l’assenza, che è oggettiva, di una opposizione credibile. I moderati hanno preso una batosta tremenda, il 4 marzo, e sono ancora tramortiti, storditi, disorientati. L’inconsistenza dell’opposizione è dunque fisiologica, oggi. La nottata che dovrà passare è insomma ancora lunga, anche perché di leader spendibili al momento non ne vedo. Ma non per questo bisogna rassegnarsi: anzi, ci sarebbe da lavorare in silenzio proprio per favorire la crescita di questo qualcosa”. Intanto, però, ci sono le europee: la primavera del 2019 non è lontana, e questa prossimità non sembra permettere di sopportare con troppa serenità l’attendismo e la pazienza. “E’ vero, ma obiettivamente credo che per quelle elezioni, in Italia, si possa fare ben poco. Lega e M5s otterranno un grande successo, che potrebbe perfino mettere a rischio la tenuta della maggioranza laddove una dei due partiti dovesse guadagnare troppo consenso rispetto al suo alleato. Non sono però del tutto certo che l’affermazione del populismo avverrà in tutto il continente. E anzi, se i moderati europei riusciranno a mobilitare i propri elettori storicamente restii a votare per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, se lanceranno in modo adeguato un allarme sul rischio del sorpasso, allora si riuscirà a evitare il plebiscito a favore dell’internazionale sovranista”. E dopo? “E dopo, almeno in Italia, si aprirà una nuova partita. Non per romanizzare i barbari, ma per scacciarli”.




Il Pd deve essere un anticorpo della democrazia
di Andrea Romano, 28 Agosto 2018

Sul Foglio di qualche giorno fa Giovanni Orsina (storico ed editorialista di grandi qualità, e incidentalmente mio buon amico) ha raccomandato a tutti noi di metterci l’anima in pace. Traduco con qualche grossolanità, ma io l’ho capita così: l’Italia è (ancora una volta) avanguardia di una trasformazione epocale (negativa, ma tant’è); Salvini e Di Maio hanno il sostegno del popolo e interpretano lo Zeitgeist assai meglio di chiunque altro; tanto vale, dunque, scenderci a patti: riconoscere che tutto il recinto della politica è ormai definito da Lega e Cinque stelle, insegnare ai due partiti un po’ di buona educazione, provare a volgere al bene comune la loro schiacciante egemonia politico-culturale e soprattutto prender atto dell’inutilità delle nostre fregnacce antipopuliste.

In questi mesi mi sono spesso domandato se l’unica risposta possibile al governo del 4 marzo sia la resa. Niente di drammatico, per carità. Le opzioni a disposizione sono le più ampie e tutte attraenti: il ritorno agli studi, il tentativo di fare un po’ di soldi, la miglior cura della famiglia, la frequentazione più assidua delle passioni terrene etc. Ma anche se nella vita ci si arrende di continuo, è pur vero che lo si fa solo davanti a ciò che si considera granitico e imbattibile. E qui è davvero difficile nascondere sotto il tappeto le tante obiezioni da muovere alla tesi dell’imbattibilità grilloleghista. La prima è di carattere storico, perché talvolta la tendenza degli studiosi anche di grandi qualità è a confondere l’affermazione (storica) dei fenomeni con la loro inevitabilità e immutabilità (politica).

In qualunque buona biblioteca troveremmo decine di casi di vittorie politiche confuse con svolte epocali non più reversibili. Non si pensi ai totalitarismi novecenteschi, naturalmente, perché nessuno da queste parti si ritiene dotato dell’eroismo morale e personale che mosse anche il più sconosciuto oppositore di Stalin o Mussolini. Limitandoci al tempo più vicino a noi ci viene ad esempio in aiuto l’esperienza di Berlusconi, a proposito del quale proprio Orsina ha scritto il saggio di gran lunga più efficace (“Il berlusconismo nella storia d’Italia”, Marsilio 2013). Ricordiamo bene i mesi successivi alle elezioni del 1994, con l’Italia ancora beatamente priva di social ma attraversata da commenti e analisi molto simili a quelle di queste settimane: coloro che festeggiavano la vittoria del Cavaliere intimavano agli avversari di deporre le armi della polemica, prendendo atto di una trasformazione incontenibile e ormai irreversibile (tra i ricordi di quei mesi conservo – chissà perché – il titolo di un editoriale di Pialuisa Bianco sull’Indipendente dopo le elezioni europee che nel 1994 resero ancora più vasta l’affermazione di Berlusconi: “E ora tacete, cretini”); coloro che se ne dolevano, spesso si stracciavano le vesti prendendosela alternativamente con l’incapacità della sinistra di contrapporsi alla nuova destra o con la degenerazione antropologica di un’Italia ormai avviata verso il baratro della barbarie.

Nel mezzo: la politica lavorava, le istituzioni funzionavano e il paese reale ascoltava. E solo due anni dopo, quello stesso paese dato per perso votava l’Ulivo e il suo programma di governo. Ovvio che l’Italia del 1994-1996 sia distante dall’Italia del 2018, così com’è ovvio che il berlusconismo di allora sia tutt’altra cosa rispetto al grilloleghismo (anche se ne è stato uno degli incubatori, come scrive Orsina). Ma il confronto tra questi due passaggi storici ci racconta ancora qualcosa. Innanzitutto ci ammonisce a usare con molta cautela il paradigma dell’Italia “avanguardia dell’Occidente”: in questo nostro tempo tanto imbarbarito, al di là delle Alpi un fenomeno populista simile a quello grilloleghista è rimasto minoritario e lontano dal governo grazie sia ad un assetto istituzionale diverso dal nostro sia alla capacità della politica francese di dotarsi di risposte adeguate alla minaccia Le Pen-Melanchon; allora, nell’Italia del 1994-1996, la somma tra l’incapacità berlusconiana di produrre risultati al di là della retorica della mobilitazione permanente e la capacità della sinistra di rimettere in discussione i propri strumenti culturali e organizzativi produsse un rapido capovolgimento di equilibri all’apparenza immutabili.

E arrivo qui alla seconda obiezione ad Orsina, che riguarda più banalmente la politica. Perché lo Zeitgeist sarà anche quello che respiriamo ogni giorno (ma sarà poi vero che lo respiriamo, noi che ci aggiriamo tra social e giornali?), ma alla fine della fiera gli elettori in democrazia si affidano alla politica per quel poco che la politica è ancora in grado di restituire sotto forma di risultati concreti. Potrò sbagliarmi, ma la mobilitazione permanente tipica di ogni populismo autoritario (che è poi il vero modello ideale del grilloleghismo) prevale solo in assenza di due elementi: istituzioni democratiche funzionanti e verificabilità dei risultati. Con tutte le magagne della nostra Repubblica, si tratta di due elementi di cui in tutti questi anni non ci siamo ancora privati del tutto e che anche sotto questo governo di pericolosi cialtroni continueranno ad agire raccontando agli italiani una verità diversa da quella descritta da Salvini, Di Maio e perfino dai media collaborazionisti.

Per questo è importante che le nostre istituzioni, seppur malandate, continuino ad esercitare la propria funzione con neutralità e spirito di servizio. Perché quella loro funzione è di per sé argine ai disegni autoritari del grilloleghismo: sia quando (come nel caso dell’Istat) fotografano una realtà economica e sociale che è destinata a peggiorare sotto l’effetto delle misure sovraniste e che nessuna complice narrazione di questo o quel chierico riuscirà a capovolgere; sia quando (come nel caso della magistratura) si procede ad indagare esponenti piccoli o grandi del nuovo regime che ritengano di poter confondere legalità e propaganda. E nessuna riflessione tattica (del tipo “Salvini sarà ancora più forte da indagato”) dovrebbe arrivare ad intaccare la convinzione che lo stato di diritto si difende sempre o non si difende mai: perché è quando quella convinzione traballa che si aprono davvero le porte all’irreversibilità degli autoritarismi.

Ma oltre le istituzioni c’è lo spazio assai più accidentato della politica. E qui il compito più difficile spetta all’opposizione (e dunque al Partito democratico, che nonostante sé stesso è destinato a restare il vero contraltare politico al grilloleghismo). Costruire le condizioni dell’alternativa al grilloleghismo sembra facile ma non lo è. Richiede alcune condizioni preliminari, tra cui la principale è il rifiuto della narrazione che vorrebbe l’Italia consegnata per sempre ad una banda di abili e popolari distruttori. Una narrazione pericolosa perché contiene in sé una doppia trappola: la prima è la vecchia tentazione di una certa sinistra di considerare gli italiani un popolo di creduloni intossicabili dal primo arruffapopolo che passa e proprio per questo meritevoli del peggio (il mio amico Orsina, fiero e solido conservatore liberale, forse non si è accorto di aver riprodotto nella sua analisi alcuni luoghi dell’antiberlusconismo antropologico che negli anni Novanta avrebbe consegnato l’Italia al Cavaliere volentieri e per sempre); la seconda è quella che nega a qualunque democrazia la sua naturale capacità di produrre, alimentare e ospitare alternative.

Proprio perché una democrazia senza alternativa politica è di per sé stessa votata al suicidio, è fondamentale che il Partito democratico coltivi ogni giorno la propria vocazione ad essere altra cosa dal grilloleghismo: dando rappresentanza parlamentare, politica e culturale agli italiani che non hanno votato Lega o Cinque stelle e agli altri che decideranno oggi o domani di cambiare idea (pochi o tanti che siano). Perché solo così il Pd svolgerà fino in fondo la propria funzione di sostegno alla democrazia italiana, oltre a difendere i propri interessi di partito.

Per questo le fantasie su una collaborazione tra Pd e Cinque stelle appaiono pericolose e non solo ingenuamente velleitarie: perché l’idea stessa di poter fare da puntello alla componente più “familiare” del grilloleghismo tradisce totale subalternità alla raffigurazione dell’Italia come nazione conquistata per sempre dal populismo, oltre a mostrare una fragilissima capacità di comprendere la natura del nuovo potere politico. Rifiutare la narrazione disfattista che vorrebbe l’Italia consegnata per sempre ad una banda di distruttori, uscire dal recinto dei “meravigliosi sconfitti”, avere più fiducia nella capacità degli italiani di giudicare la realtà per quella che è. In una frase, per quanto di complicata traduzione pratica: essere alternativa credibile, popolare e convincente a chi ha certamente vinto una battaglia senza aver vinto alcuna guerra epocale.

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