In Europa, ma senza enfasi

novembre 24, 1996


Pubblicato In: Giornali, La Repubblica


Il regresso della lira nello Sme è un nuovo coerente segnale della volontà di Tesoro e Bankita­lia di rassicurare i mercati sul proposi­to italiano di partecipare fin dall’inizio al club dell’Euro. La richiesta italiana si basa su un presupposto innegabile: la discesa dell’inflazione è risultata più rapida di quanto si osasse sperare, è un fatto positivo di straordinaria rilevan­za. Su questa base si può sperare in un ulteriore ribasso dei tassi di interesse e dello spread Btp-Bund. Basta questo per dire che siamo tornati ai mitici an­ni Sessanta? Sbaglia chi lamenta un ec­cesso sul versante fiscale e un difetto su quello dell’offerta, del mercato e della concorrenza? Questo è l’interrogativo da cui deve partire chi, come me, in questi giorni ha avanzato tali critiche, pur essendo sostenitore del rigore. Per risultare più chiaro, restringo i riferi­menti a due articoli apparsi su “Repub­blica”, il primo di Lucio Villari e il se­condo di Giuseppe Turani.

Lucio Villari ha sostenuto che gli sforzi per entrare in Europa trovano paragone adeguato nei prestiti forzosi sottoscritti durante le due guerre mon­diali combattute in Europa. Un tale ar­gomento, sostenuto per di più da uno storico, induce a una duplice riflessio­ne.

Primo: l’Europa sarà pure il nostro obiettivo numero uno, ma paragonarla a una guerra è inaccettabile. Non solo è un capovolgimento della storia, visto che «mai più guerre» era la parola d’or­dine dei Monnet, degli Schuman, degli Adenauer. Ma soprattutto perché, visto che l’argomento è sostenuto ai fini del consenso, non si può proporre ai citta­dini italiani ed europei una meta se gli sforzi per raggiungerla sono paragona­bili a un conflitto.

Secondo: Lucio Villari, in difesa dell’eurotassa, si appoggia al Keynes del 1939. Il riferimento, se proprio si vuole, dovrebbe essere al Keynes del 1919 non del 1939. Poiché il debito ita­liano per il suo ammontare è, a tutti gli effetti, paragonabile a quello di un pae­se uscito da una sconfitta, allora si do­vrebbe piuttosto ricordare ciò che l’eco­nomista inglese, alla fine della prima guerra mondiale, rappresentava al Te­soro della Gran Bretagna, cioè le peri­colose conseguenze che avrebbe avuto l’imporre così pesanti sanzioni alla Ger­mania. L’eccesso di rigore, ammoniva inascoltato, avrebbe condotto al risultato opposto di quello che ci si proponeva, cioè un’Europa pacifica. Esso avrebbe invece portato recessione, la recessione disordine, il disordine sostegno al primo dei tedeschi che avrebbe preso a calci gli accordi di Versailles.

Poiché è un fatto che la protesta sociale, in Italia come in Francia e in Germania, come scrivono da tempo Delors, Schmidt e Giscard d’Estaing, vede nei sacrifici per Maa­stricht qualcosa — sia pur lontana­mente — paragonabile agli obblighi iniqui di Versailles, cresce l’inquietu­dine per accostamenti impropri che, lungi dall’offrire solidità alle misure del governo, finiscono per circonfon­derle di un’enfasi pericolosa.

Per spiegarmi meglio vengo ora alla riflessione di Turani. Anche in questo caso condivido lo spirito costruttivo che vi è sotteso: ma non la sua tradu­zione in formula. No, non possiamo chiedere agli italiani di credere di esse­re tornati ai miti ci anni Sessanta. Man­cano infatti, di quegli anni, i tassi di cre­scita: uno 0,9 in più del pil ai loro occhi non può oggettivamente equiparare gli sforzi loro richiesti.

Mi si potrebbe obiettare che questi argomenti sono di un antieuropeista e di un oppositore dell’attuale governo. Non è così. Proprio i cambi rigidi spin­geranno l’Italia a un impoverimento della base produttiva se non affian­chiamo, al rigore di bilancio, azioni al­meno di pari incisività per rendere più flessibile la nostra economia. Allo stes­so modo ritengo che chi vorrebbe ve­dere anche questo sforzo accanto al pri­mo, abbia il dovere di rappresentare con forza all’opinione pubblica questa necessità, senza per questo regalare all’opposizione una protesta fiscale che, per molti versi, è fondata.

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