Il vero filantropo? Chi fa profitti. Creare ricchezza merita un plauso almeno quanto distribuirla

gennaio 5, 2011


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di Alberto Mingardi

La filantropia è finita in un circolo vizioso? Come ha notato il Financial Times, le misure di austerità hanno un impatto sul welfare che “chiama” un maggiore impegno di associazioni benefiche e mecenati privati. Nel contempo, la perdurante incertezza influisce sulle aspettative dei donatori più abbienti, che hanno ridotto le elargizioni.

Si spiega anche così l’enfasi con cui Bill Gates e Warren Buffett stanno conducendo una vera e propria campagna di comunicazione, per convincere i “colleghi” miliardari a impegnare quote consistenti della propria ricchezza. Il giving pledge (l’impegno di dare) promosso da Gates e Buffet (e sottoscritto sino a ora da Larry Ellison, George Lucas, Mark Zuckerberg e molti altri) rappresenta una sorta di impegno “morale” a devolvere una parte consistente del proprio patrimonio – nella maggioranza dei casi il 50%, per Buffett addirittura il 99% – a vantaggio di enti non profit. Gates e Buffett non promuovono una particolare realtà, ma piuttosto un principio. Chi ha avuto tanto dalla vita dovrebbe sentirsi obbligato a fare qualcosa per gli altri.

Le motivazioni di fondo le spiega molto bene Buffett nel proprio pledge: «La mia ricchezza arriva da una combinazione del fatto che sono vissuto in America, di alcuni geni fortunati, e dell’interesse composto». Va sicuramente a onore dell’umiltà intellettuale di Buffett questo suo sottolineare la dimensione della fortuna: che gioca in tutte le cose umane il ruolo che sappiamo, e la vita economica non fa eccezione.

Tuttavia, non è tutt’oro quel che luccica. Buffett riconosce di essere vissuto in una società che premia «chi ha salvato le vite di altri su un campo di battaglia con una medaglia» mentre quanti sanno individuare le anomalie di prezzo dei titoli di borsa traggono dalla loro abilità remunerazioni straordinarie. Al fondo, questo sforzo mediatico fa perno su un’idea molto semplice: che il mercato sia ingiusto, e che lo sappiano meglio di altri proprio coloro che nel mercato hanno saputo prosperare.

Ci sono due ordini di problemi, con questo atteggiamento. Il primo riguarda il mondo del non profit. I gestori di enti caritatevoli, associazioni benefiche, fondazioni culturali non sempre dispongono della straordinaria capacità manageriale che è richiesta a chi debba governare un’impresa, in assenza del più fondamentale strumento segnalatore del suo successo: i profitti. Queste persone sono mosse da leve psicologiche diverse da quelle dei manager. La loro remunerazione più rilevante è di carattere psicologico: fare il bene, impegnarsi per una giusta causa.

Purtroppo le “giuste cause” sono perfette per mettere la polvere sotto il tappeto. Innanzi a obiettivi mastodontici, le minuzie della conduzione di una “impresa sociale” spariscono. La differenza psicologica fra l’investire e il donare continua a condizionare il mondo del non profit, consentendo la sopravvivenza di vaste sacche di inefficienza. Non è inspiegabile che a un billionaire il mondo del “sociale” risulti interessante proprio perché lontano dalle aride logiche della performance: questo atteggiamento mette però a repentaglio l’efficacia delle sue donazioni.

Il secondo ordine di problemi riguarda la rappresentazione del sistema capitalistico che danno proprio i suoi più generosi rappresentanti. Dimostrano di non comprendere le implicazioni del loro stesso gioco.

Abbiamo a che fare con una sorta di riflesso “costruttivistico”. Quando parliamo di persone come Paul Allen, Bill Gates o George Lucas, non c’è davvero modo che essi riescano a contribuire più al benessere sociale da filantropi di quanto abbiano fatto da attori autointeressati. Hanno creato ricchezza, lavoro, cambiato il nostro modo di vivere, pensare, lavorare. Hanno reso la vita più facile e interessante assieme a milioni di persone, spalancando opportunità nuove. Ma l’hanno fatto “senza accorgersene”, come sottoprodotto delle loro legittime ambizioni. Non hanno pianificato il bene che facevano, ora vogliono farne in modo consapevole e autodiretto. Le loro ambizioni verranno sempre frustrate: le conseguenze inintenzionali dell’arricchimento supereranno inevitabilmente le conseguenze intenzionali della beneficenza.

Pensare che creare ricchezza non meriti apprezzamento sociale, e distribuirla invece sì, tradisce il bisogno di approvazione e il senso d’inferiorità dei capitalisti. Viva i filantropi – purché sappiano che chi crea benessere fa già il bene di tutti.

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