Il TFR è prezioso, sprecarlo è un delitto

settembre 8, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Stava scritto nel copione che, nel dibattito sulle pensioni, a un certo punto venisse tirato in ballo il TFR: è l’unico elemento di flessibilità in una situazione tecnicamente e politicamente rigida.
Di tutti i flussi di danaro che alimentano il sistema della previdenza, i soli soldi che non sono immediatamente inghiottiti dal debito pensionistico sono quelli che vanno a costituire il TFR; sono quelli gli unici risparmi “veri”, con cui si può pensare di costruire anche da noi qualcosa di simile ai tanto sospirati fondi pensione.

Il TFR è dunque una risorsa preziosa, e bisogna evitare di sprecarla. Un primo modo di sprecare questa risorsa sarebbe metterla in busta paga senza vincoli, e destinarla ai consumi.
Sprecarla è anche accusare gli imprenditori di utilizzare il TFR per finanziarsi ad un tasso vantaggioso, 1,5% più dell’inflazione: il rendimento riconosciuto ai soldi accantonati per il dipendente è una delle tantissime componenti del contratto tra azienda e dipendente, non è né più né meno iniqua del salario, o delle norme su straordinario o ferie, dell’orario o dei parametri di calcolo dei premi. Tutti i contratti si possono ridiscutere, ma sedersi al tavolo sostenendo che un contratto è un abuso, facendo passare per rapinatore chi lo applica, significa solo voler deliberatamente provocare l’irrigidimento della controparte.
Sprecarla è il massimalismo di pretendere il versamento anticipato dell’intero stock del TFR maturato (300.000 miliardi, per le imprese private), anziché del flusso, cioè dei 25mila circa che annualmente lo incrementano: sarebbe semplicemente non praticabile, un terremoto che squasserebbe gli equilibri finanziari su cui si reggono le imprese.
Sprecarla è anche alimentare attese miracolistiche, lasciar credere che basterebbe investire diversamente il TFR, per far calare i contributi e aumentare le pensioni. Sprecarla è usare il TFR come un coniglio nel cappello: accontentiamoci di un…fante nella manica.

Si discute del problema della “gobba” – o della “scoliosi”, secondo Giuliano Cazzola. Ma la vera soluzione del problema pensioni si avrà solo quando il sistema sarà in equilibrio senza bisogno della integrazione a carico del bilancio pubblico e con un’aliquota contributiva nettamente inferiore all’attuale 32,7% che strangola il mercato del lavoro.
Il passaggio al metodo di calcolo contributivo (a pseudo-capitalizzazione) già ha l’effetto di ridurre il grado di “copertura” della pensione. Si può andare oltre (oggi da noi la pensione va fino al 74% dello stipendio degli ultimi anni, in USA è del 50%), solo se la pensione pubblica è integrata da quella privata personale. Ma per averla è giocoforza che una generazione continui a pagare la pensione dei propri padri e in più metta da parte i capitali per la propria: questa è la realtà che non bisogna mai dimenticare.
Non c’è altro modo di liberarsi dal patto faustiano con cui a suo tempo furono create le pensioni dal nulla, cioè non accantonando capitale, ma contraendo un debito.
Noi invochiamo i mitici fondi pensione, quelli che moltiplicano con generosità il capitale delle vedove, stabilizzano con lungimiranza i corsi di Borsa, rimpiazzano il vetero-capitalismo familiare con le moderne public company. Sono stati sviluppati modelli (da quello con ipotesi … audaci di Franco Modigliani, a quello più realistico di Castellino-Fornero) che dimostrano come somme anche relativamente modeste, accantonate anno per anno e investite a rendimenti elevati, producano nel giro di un tempo abbastanza lungo riserve atte a sostenere la spesa pensionistica: ma poiché i soldi da investire non ci sono, anzi i contributi versati da lavoratori e imprese neppure bastano a pagare il debito verso i pensionati, e deve intervenire il contribuente a saldare il conto, tutti i modelli prevedono una fase iniziale in cui o i contributi o le imposte aumentano.
Questo per me è inaccettabile: una generazione non può pagare l’entrata in Europa, la politica deflazionistica, la rinuncia alla svalutazione, e la riforma delle pensioni fatta a suo carico. Bisogna dire basta a tutte le soluzioni in cui per pagare di meno poi si incomincia ad aumentare contributi o tasse già spropositate.
Questa è la ragione di equità per cui bisogna eliminare le pensioni di anzianità, cosa che riduce molto più rapidamente lo squilibrio pensionistico, perché aumenta il gettito dei contributi e riduce il numero degli anni in cui si deve pagare la pensione.
Torniamo al TFR. Il TFR è già capitale risparmiato dai lavoratori, che al momento di andare in pensione potrebbero convertirlo in un vitalizio, cioè l’equivalente di una pensione integrativa. Ciò di cui si può discutere è solo il veicolo di investimento, che potrebbe dare un rendimento maggiore di quello convenuto con le imprese. L’accantonamento del 7% di un salario lordo di 25 milioni l’anno, impiegato al tasso reale del 5% anziché all’1%, consente di avere dopo 40 anni un capitale maggiore di 126 milioni. Importante certo, non il bengodi che recenti autorevoli rappresentazioni potrebbero indurre a immaginare. Soprattutto deve essere chiaro che anche questa ricchezza non si crea dal nulla, ma grazie a un onere sopportato dalle imprese. Onere che tuttavia le imprese potrebbero accettare in cambio della certezza di avere in tempi ragionevolmente brevi aliquote contributive e quindi costo del lavoro più basso.
Un ultimo consiglio per non sprecare il TFR: il Governo elimini la legge sulla cosiddetta cartolarizzazione che ha recentemente fatto approvare. Ingombra il terreno con molti difetti, e non avrà nessuna significativa conseguenza pratica.

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