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Il suicidio del partito dei funzionari

Pubblicato il 29/11/2012 @ 09:51 in Giornali,Il Foglio


Chi alle politiche volesse votare Pd se il candidato fosse Renzi, e non se fosse Bersani, non può votare alle primarie. E’ la conclusione logica di un corsivo sull’Unità (Pietro Spataro, 25 Novembre): non rispettare l’impegno della dichiarazione che gli han fatto firmare, è “non moralmente onesto”, “scorretto”, “doppio giochista” “poco serio”. Fermiamoci al “serio”, guardiamo piuttosto ai paradossi che così si aprono.

Chi alle politiche voterebbe Renzi è sospeso a divinis; chi potrebbe allargare il bacino di voti del Pd, deve non far nulla per favorire questo esito; i cittadini sospetti di essere “lontani dalle posizioni del Pd” e che potrebbero votarlo, sono poco seri; chi non sarà d’accordo con le posizioni che la battaglia elettorale farà emergere, se vorrà essere considerato serio, potrà solo astenersi. Un partito non ha l’obbligo di indire le primarie, può farle con le regole che crede. E siccome la politica è competizione, chi del partito controlla le leve, può usarle per vincere. Quello che non capisco è perché usarle per perdere. Perdere la battaglia vera, quella dove la posta in gioco è la leadership del paese. Dicono che è per evitare che il risultato sia inquinato da “infiltrati” che vorrebbero alterare il risultato della consultazione: ma chi lo volesse fare non avrebbe scrupoli a firmare un pezzo di carta. Identificarsi alseggio già dovrebbe frenare gli sfaccendati in vena di fare scherzi. E se ci fosse tra loro qualche pecorella smarrita che così ritrova la strada dell’ovile? C’è un seggio anche sulla via di Damasco: si ha così poca fiducia nella capacità di “convertire”? Per influire sull’esito, ci vorrebbe un’organizzazione, e lo si saprebbe.
Dicono che così facciamo come quelli “che [per votare] si va in America”: ma là è radicata la cultura del bipolarismo, qui invece il maggioritario, a parole lo si vorrebbe, ma poi si “subisce” il proporzionale, pronti ad allearsi il giorno dopo le elezioni con coloro contro cui si erano alzati gli sbarramenti. Nelle primarie, come è in America, come fu con Prodi, il consenso non viene solo contato, viene promosso. Sono un evento in cui ci sono più spettatori che attori: mettendo in scena il loro consenso, ne attraggono dell’altro. E che consenso può promuovere, che entusiasmo suscitare un partito che si presenta come un ufficio comunale, mutuando immagini e procedure di ciò che occupa l’ultimo posto nel gradimento degli italiani, cioè la pubblica amministrazione? Quelle immagini delle code, come si fa a non capire che sono devastanti? Le code in cui si manifesta la libertà di scelta sono allegre, quelle in cui si firma un’impegnativa sono tristi, fanno Unione sovietica.
Chi affiderebbe la guida del paese a un candidato che si presenta con le sembianze del burocrate, con l’occhiuta pignoleria del funzionario? E poi, è serio chiedere una delega in bianco, prima di conoscere l’offerta politica, programmi e impegni del candidato?
Politica è parlare alla gente, ragionare sul presente, prospettare un futuro. E che messaggio dà ai cittadini, poi, chi si presenta come colui che inquadra, regolamenta e controlla? Sono quasi vent’anni che la sinistra polemizza contro il partito di plastica, il cavaliere imbonitore, la battaglia politica come campagna pubblicitaria: per dimostrare che si è diversi non ci sono altri mezzi che ricorrere all’intruppamento? Sono perfino propenso a credere che in tutto questo non ci sia il calcolo cinico e spregiudicato di chi è pronto anche a danneggiare l’immagine del partito perché quello che conta è conquistare la leadership. Ma, a ben pensarci, questa è un’aggravante: denota incomprensione dei mezzi con il quali si ottiene il consenso.

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