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Il solito “disagio” dei democratici

Pubblicato il 27/04/2013 @ 09:26 in Corriere Della Sera,Giornali


Caro Direttore,

Non è bastata la soddisfazione per l’incarico affidato ad un proprio esponente di punta a fare rientrare i contrasti all’interno del PD; essi restano un ostacolo sul cammino di Enrico Letta, e quindi sulla possibilità di trarre qualche risultato positivo da questa legislatura. All’origine di tutto ciò sta la mancanza nel PD di una forte identità condivisa. Un fatto conclamato, dopo le oscillazioni del Bersani “esploratore”, dopo i voti per Rodotà di Fabrizio Barca +7, le dichiarazioni di Rosy Bindi, le variazioni “alla turca”, dopo i distinguo, le riserve, i paletti che si sono manifestati in direzione.

L’identità positiva della vocazione maggioritaria non ha retto a lungo, il mantra tante volte ripetuto dell’unione di tutti i riformismi non regge più. A funzionare è stata finora solo l’identità negativa dell’opposizione a Berlusconi. “Un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti [hanno diffuso]”, è Giorgio Napolitano a dirlo “una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse”. Se oggi il PD non regge una vera intesa con Berlusconi, è perché ha costruito la sua identità e formato la sua base elettorale nell’averlo combattuto per vent’anni denunciando la sua anomalia.

Ora la sinistra si ritrova con il problema “delle identità dei partiti da preservare, delle differenze da salvaguardare, [delle] opinioni pubbliche di riferimento da considerare [….], che conservano […] un sentimento vivo delle identità politiche delle necessità, delle opportunità, ma anche delle incompatibilità”, come riconosce Ezio Mauro (I limiti dell’emergenza, la Repubblica, 23 Aprile). Necessità, opportunità, incompatibilità non stanno logicamente sullo stesso piano. Non sono le necessità di dover prendere provvedimenti impopolari a costituire problema, né lo sono le opportunità da cogliere con le leggi elettorali: il “disagio”, chiamiamolo così, è l’incompatibilità con Berlusconi.

Ma, a ben vedere, neppure superarla deve essere un problema, e per una ragione elementare, che dipende dal fatto che il PdL, come tante volte denunciato dalla sinistra, è un partito personale: l’era Berlusconi comunque volge al termine. Tutti dovranno, prima o poi, ragionare “etsi Berlusconi non esset”. La destra avrebbe già dovuto farlo, non fossero state prima le esitazioni di Monti ad assumersi il compito di ristrutturarla, poi i clamorosi errori di Bersani, a consentirle di uscire dall’angolo e di rinviare la resa dei conti: ma il problema si ripresenterà. Fare proprio il problema dell’avversario sarebbe un altro esempio del masochismo proverbiale della sinistra. Arrivare prima ad attrezzarsi per il poi è un vantaggio strategico che la sinistra non dovrebbe lasciarsi sfuggire.

Il governo come scuola di identità: questa è l’opportunità che il PD non deve mancare. Certo, le identità si definiscono meglio stando all’opposizione, chi governa ha a che fare con la dura realtà, deve considerare le compatibilità, deve scegliere, mentre all’opposizione è consentito indicare come trasformare il mondo. Quando finiranno le malattie infantili? E’ dal governo che bisogna parlare ai cittadini, se si vuole ristabilire la fiducia tra gli italiani e il sistema politico- istituzionale.

Con la rielezione di Giorgio Napolitano siamo entrati in una fase nuova. L’esito è tutt’altro che scontato, ma la discontinuità è sicura. Non è cambiato l’equilibrio politico, saranno ancora tre partiti maggiori che si confrontano. Non è cambiata l’agenda di governo, tra austerità e riforme, tra Europa e imprese, tra fisco e famiglie. E’ cambiata la prospettiva entro cui destra e sinistra in Italia devono definire le loro identità politiche: comunque vada a finire. Le probabilità che vada bene aumentano se la sinistra fonda la propria identità sul dopo. Si pensa in particolare alle riforme istituzionali. La riforma della legge elettorale dovrebbe essere questa volta sicura, ma scongiurare la possibilità di stallo richiede il superamento del bicameralismo perfetto. Col che si deve metter mano alla Costituzione: a quel punto, tagliare il numero dei parlamentari favorirebbe la sopravvivenza di un rapporto fiduciario tra i partiti e la loro gente. Ma il punto chiave sarebbe mettere in Costituzione un presidenzialismo che si è già dimostrato necessario. Perché la sinistra non dovrebbe intestarsi questo obbiettivo? Perché arrivarci dopo? Cos’altro chiedeva il suo popolo nella vicenda Marini – Prodi – Rodotà, se non scegliersi il suo presidente? Questa sì che sarebbe una base solida per costruire la propria identità.

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