Il Soccombente

settembre 6, 2012


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Thomas Bernhard
Il soccombente
Traduzione di Renata Colorni
Adelphi, 2012, pp. 186


Recensione di Franco Marcoaldi

Thomas Bernhard era un tipo decisamente strano. Se non bastassero i suoi romanzi, con quelle centinaia di pagine claustrofobiche, prive di qualsiasi punto a capo, e l’ossessività della sua scrittura fatta di continue reiterazioni, sempre attorno al tema del fallimento e della morte, per averne ulteriore conferma si può sempre andare in visita alla casa di Ohlsdorf, nel bel mezzo di quello che passa per essere il Lake District austriaco.

Bernhard comprò quella vecchia, immensa abitazione di campagna (fortificata e misteriosa come la sua esistenza) subito dopo la fortunata pubblicazione del suo primo romanzo, “Gelo”. E cominciò a restaurarla un pezzo alla volta, cercando di non modificare nulla dell’originaria struttura. Oggi tutto è rimasto come al momento della sua morte (1989). Nelle stalle giacciono abbandonate svariate macchine agricole con su la scritta “Bernhard-agricoltore” (la sua incompetenza, a riguardo, pare fosse totale: ma Thomas ci teneva, e molto, a quel biglietto da visita). Nel piccolo atrio sono appesi svariati cappotti e cappelli e mantelline tipici dell’abbigliamento folklorico locale, sul quale lo scrittore appuntò strali micidiali, ma che evidentemente solleticava un lato nascosto della sua controversa personalità.

Da figlio illegittimo e rinnegato qual era, Bernhard adorava il lusso e una certa, maniacale ricercatezza: stanno lì a dimostrarlo trecento paia di scarpe perfettamente ordinate e lucidate; i tavolini di legno da lui personalmente disegnati, e svariati ritratti di presunti, fantasmatici antenati. Proverbiale era il suo amore per una misantropica solitudine, come evidenziano due striminziti lettini volti a dissuadere dal pernottamento anche gli ospiti più tenaci e invadenti, oltre a una lunga serie di cartoline – amorevolmente raccolte dietro a una vetrinetta Biedermeier – che il Nostro spediva a se stesso da ogni angolo di mondo. Dopodiché si entra in una biblioteca che sembra assolutamente intonsa e infine nella sala d’ascolto della musica, dove sta in bella mostra un disco delle “Variazioni Goldberg” di Bach suonate da Glenn Gould, il coprotagonista del romanzo “Il soccombente”.

Pubblicato nel 1983, il libro racconta il rapporto d’amicizia che si stabilisce tra tre uomini: l’io narrante, Wertheimer e per l’appunto Gould. I tre pianisti frequentano in età giovanile un corso di Horowitz a Salisburgo, ma mentre i primi due sono “soltanto” due straordinari talenti, il terzo è semplicemente un genio. Quando i due avranno modo di sentire per la prima volta suonare Glenn Gould capiranno che la musica non fa per loro. Di fronte a quei vertici assoluti qualunque carriera di grande virtuoso è semplicemente ridicola. Ma mentre il narratore sopporterà stoicamente l’abbandono del pianoforte, nella convinzione che o si è i migliori o non si è per niente, per Wertheimer quella rinuncia rappresenterà il primo e decisivo passo di una catastrofe annunciata, l’inizio della rovina del soccombente, conclusasi con l’immancabile suicidio.
Il romanzo comincia dalla fine, dalla morte di Wertheimer e dall’interminabile riflessione a posteriori dell’io narrante che dispone se stesso e i suoi due amici su una sorta di tavolo anatomico per osservare i caratteri (e le falle) di questi tre esseri umani. Gould è per l’appunto il genio, l’uomo che ha definitivamente trasformato l’interpretazione di Bach: “invasato dalla sua arte”, vive recluso dal mondo in una casa immersa nel bosco suonando per dodici ore al giorno. Quando si attacca al pianoforte si raggriccia tutto e sembra uno storpio, mentre in realtà è un uomo “bello” e “signorile”. Ama le definizioni semplici e la chiarezza del pensiero, detesta l’imprecisione e dunque quasi tutta l’umanità. La sua parola prediletta è autodisciplina; con se stesso è “l’uomo più spietato che si possa immaginare”.

Il suo segreto? Suona “per così dire dal basso verso l’alto, non come tutti gli altri dall’alto verso il basso”. Ha raggiunto livelli interpretativi di eccezione, ma il suo “radicalismo pianistico” lo ha posto davanti a un’insuperabile impasse: il desiderio di trasformarsi nello Steinway, di abolire qualunque intermediario umano tra Bach e il pianoforte. E morirà così, con questo sogno irrisolto: colto da ictus suonando le “Variazioni Goldberg”.

Quanto all’io narrante, pare in tutto e per tutto il doppio dell’autore.
Come lui detesta l’Austria, mix orrendo di cattolicesimo e socialismo, e detesta in particolare Salisburgo, città abitata da gente immonda e luogo suicidiario d’elezione. Ma al contrario del soccombente è sopravvissuto, nella consapevolezza dei propri limiti musicali. Da anni vagheggia di scrivere un saggio su Glenn Gould e non è mai venuto a capo di nulla. Ma mentre esplicita a chiare lettere questo ulteriore fallimento (dovuto alla sua connaturata “arroganza e indolenza e tedio e pigrizia”) sta di fatto componendo la straordinaria e agghiacciante partitura musicale di questa storia; in altri termini, sta facendo della propria vita un’opera d’arte. Insomma, tutto il contrario di Wertheimer, uomo pervaso dall’infelicità e che con l’infelicità ha sempre convissuto come con una seconda pelle, impossibilitato a disfarsene.

Wertheimer è un emulatore nato, un invidioso fisiologico, un debole aggressivo. Colpito a morte dal genio di Gould, è approdato alla filosofia scrivendo aforismi che il narratore ridicolizza, anche perchè non hanno minimamente aiutato il loro autore. Mentre in teoria Wertheimer “padroneggiava ogni disagio della vita, ogni sconforto, ogni disperazione”, in pratica non ne è stato capace. Sì che a dispetto delle sue stesse teorie, è andato a fondo, colando a picco fino al suicidio.

A questo punto il romanzo potrebbe anche prendere la piega di una comprensibile pietas, ma in tal caso l’autore non sarebbe lo spietatissimo Bernhard. Il quale, al contrario, per bocca del narratore, spinge fino in fondo il coltello nella piaga: “Facciamo una grande fatica per salvarci da questi soccombenti e da questi uomini da vicolo cieco, poiché questi soccombenti e questi uomini da vicolo cieco ce la mettono tutta per tiranneggiare il mondo che li circonda e uccidere a poco a poco le persone che li frequentano, mi dissi. Per deboli che siano, e proprio perché la debolezza è radicata profondamente nella loro natura e costruzione, essi hanno la forza di esercitare sul mondo che li circonda un effetto devastante, pensai”.

E’ per l’appunto il caso di Wertheimer, che ha schiavizzato la sorella per tutti i lunghi anni durante i quali ha convissuto con lei. L’ha tenuta chiusa in casa, le ha impedito di passeggiare liberamente, di frequentare gli amici, di indossare gli abiti prediletti. E quando infine la donna non ne ha potuto più e se ne è andata e si è sposata con uno svizzero ricco sfondato, lui è rimasto solo come un cane. E ha maturato la definitiva vendetta andando ad impiccarsi su un albero distante cento metri dalla nuova casa della sorella.

E’ proprio il segreto che sta dietro questo gesto plateale che l’io narrante vuole carpire. Per cui ricomincia la sua ossessiva ricerca: quando ci rendiamo conto di come sono fatti questi uomini del vicolo cieco, quando scopriamo il loro peculiarissmo meccanismo, “allora è quasi sempre troppo tardi per sottrarci al loro influsso, quelli ci trascinano con sé, appena possono ci trascinano verso il basso con tutta la violenza di cui sono capaci, disposti a sacrificare chiunque, anche la propria sorella”.

Libro terribile, insopportabile e magistrale, “Il soccombente” sembra raccogliere in un solo racconto tutti i temi più cari di Bernhard. E soprattutto porta ad apoteosi la sua particolarissima dote di strumentista della lingua, come bene ha scritto Chantal Thomas. Quanto il romanziere scrive a proposito di Gould, che riprende all’infinito le “Variazioni Goldberg”, vale anche per lui, che costruisce invariabilmente i suoi libri attraverso il tema prediletto della variazione, in un canto comprendente tutte le nuances dell’umor nero: “dalla semplice irritazione al suicidio, passando per le innumerevoli modulazioni dell’esasperazione, della collera, del risentimento”.

Nella vita, sosteneva lo scrittore austriaco, non è mai finita. C’è sempre qualcosa di peggio. Ogni momento si può aggiungere un elemento nuovo a questa visione da incubo, a questa dinamica del disastro. Ed è proprio per via di tale cooperazione frenetica con il malessere che la letteratura di Bernhard – sostiene ancora Thomas – lungi dall’essere malinconica, riveste immancabilmente i connotati di una lotta attiva. Dagli effetti rinvigorenti e dagli esiti paradossali. Come senz’altro è l’esito di questo libro, dove entrano in rotta di collisione la massima felicità espressiva (Glenn Gould) e la totale impotenza esistenziale (Wertheimer); dunque due figure antipodiche, unite però dal medesimo problema: come uscire dalla gabbia della vita.

Wertheimer, con la sua umanità disastrata, ci proverà con un suicidio lungamente premeditato; Gould, mistico della musica, cercando di annullare la propria umanità nel pianoforte.

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