Il rischio è far nascere nuovi Mattei

maggio 10, 1997


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Il mondo delle grandi aziende si sta animando di importanti iniziative: l’accordo ENI-Enel per dar vita ad un nuovo soggetto nella produzione di energia; la possibile intesa tra Enel e Deutsche Telekom per far nascere un concorrente a Stet nella telefonia fissa; la partecipazione di Stet e Rai alla piattaforma satellitare.
Queste vicende sono state finora analizzate quanto alle loro conseguenze sul processo di liberalizzazione (aumenta o diminuisce la concorrenza?) o su quello di privatizzazione (aumenta o diminuisce la proprieta’ pubblica?).

Tali analisi pero’ non colgono un fatto di grande portata: sta cambiando l’oggetto stesso del processo di privatizzazione. Si trattava di vendere tre aziende: una chimico-petrolifera col monopolio della distribuzione del metano; il monopolista della telefonia fissa; il monopolista elettrico. Su cio’ si e’ discusso all’infinito.
Nel frattempo il quadro e’ completamente mutato. Quando e se le resistenze saranno superate, i monopolisti saranno diventati holding diversificate, ramificate in business diversi, inserite in reti di partecipazioni e di alleanze, legate da contratti pluriennali, impegnate in investimenti a redditivita’ differita. Societa’ troppo complesse per essere valutate; troppo grosse per essere assorbite dal mercato dei capitali; soprattutto troppo potenti per essere vendute a privati.
Quattro anni fa, il mondo delle partecipazioni statali sembrava condannato dalla sua inefficienza e dalla sua corruzione. Si e’ data la colpa ai boiardi lottizzati e li si e’ sostituiti con manager di valore. Manager intraprendenti, preoccupati che lo stallo politico non faccia perdere opportunita’ di business; manager leali verso l’azionista, delle cui partecipazioni aumentano il valore; manager incorrotti, che non comprano politici, non pagano partiti.
Si e’ tentato di curare con la virtu’ personale dei manager un fenomeno, l’inefficienza della mano pubblica. Ma la politica non ha indicato ai manager virtuosi con stringente chiarezza l’obbiettivo che essi devono perseguire: il ritrarsi dello stato dalla gestione dell’economia come obbiettivo da perseguire per se. Il ritorno a manager virtuosi ha cosi’ fatto tornare di attualita’ le nostalgie degli anni “gloriosi” di Saraceno e Sinigaglia; ha dato agio di volgere le rinviate privatizzazioni verso l’ambizione di dar vita a national champions; ha tentato il Tesoro a chiudere un occhio sull’estensione dei rami di attivita’ che ne valorizzassero le partecipazioni. Il risultato ha il sapore del paradosso: la virtu’ di chi e’ stato posto alla guida di imprese pubbliche dichiarate quattro anni fa non piu’ pertinenti alla mano pubblica finira’ per vanificare tale obiettivo.
C’e’ una ragione per tutto questo: essa va ricercata non solo nella persistente vocazione statalistica dei filoni di pensiero politico che hanno dominato per decenni la vita politica italiana, e che nella realta’ dei fatti – ad onta di ogni egemonia del cosiddetto “pensiero unico” del mercato – continuano ad improntare la vita del paese. Essa affonda invece la sua radice nella peculiare visione economica che accomuna la generazione e le esperienze proprio di quelle personalita’ la cui virtu’, in questi ultimi quattro anni, ha saputo portar fuori l’Italia dalla morta gora della prima Repubblica, ma non ancora avviarla ne’ a nuove regole poltiche, ne’ ad un’economia fondata su mercato e concorrenza.

Queste personalita’ sono ancora oggi in buona sostanza convinte della bonta’ di quel “dirigismo liberale” di cui E. Rossi – in frontale polemica con Sturzo e Einaudi – scriveva sul Mondo l’8 giugno 1954. Quel filone di pensiero, convinto “che non vi sia antitesi alcuna tra economia di mercato ed economia programmata”, afferma che ” la virtu’ di chi sara’ posto alla guida delle imprese pubbliche costituisce la garanzia che deve separare un piano buono da un piano cattivo”. Come avrebbero provato negli anni successivi gli studi di Brunner e Buchanan, Stiglitz e Coase, si trattava e si tratta di una pericolosa illusione.
Ecco qual è lo sfondo del paradosso italiano attuale: stiamo creando la nuova generazione dei Mattei. Chi all’inizio mando’ Mattei all’AGIP voleva veramente liquidarla: fini’ con la sfida dell’ENI alle sette sorelle del petrolio. Grazie alla capacita’ imprenditoriale di un uomo si era creato un inattaccabile potere economico.
I nuovi Mattei, i Bernabè, i Rossi, i Tatò, promettono un frutto irresistibile agli occhi della cultura politica italiana, lo statalismo di successo. Sono dei Mattei rassicuranti, perche’ a differenza del loro progenitore mostrano assai meno accentuate tentazioni di sconfinamenti politici. Ma anche per loro effetto, se il processo di liquidazione della presenza pubblica nella gestione diretta di attivita’ economiche si arresta, cio’ non avviene solo per le resistenze di Cossutta e Bertinotti, ma per l’etrogenesi dei fini in cui politicamente si risolve ogni missione i cui obbiettivi non siano chiari fin dall’inizio.
Oggi come allora non si vede chi possa fermare una storia che sembra gia’ scritta. All’epoca di Mattei ci provo’ Luigi Sturzo, e fu la battaglia perduta della sua vecchiaia. Oggi solo un “giullare di Dio” come Pannella continua ad opporsi. Anche Amato torna ai suoi studi. E poi opporsi in nome di che cosa? “The business of government is not the government of business“, si diceva ai tempi della Thatcher. Ma che bisogno c’e’ della Thatcher, Blair non ha vinto imitando l’Ulivo?

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: